a cura di Armando Pepe
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NOTA DEL CURATORE
Le smarrite missive scritte da Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo, figura di spicco del movimento cattolico italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, che hanno un certo significato anche sul versante degli studi ad esso dedicati, erano conservate presso la biblioteca dell'Associazione Storica del Medio Volturno a Piedimonte Matese. Fortunatamente erano state pubblicate, a metà anni sessanta del XX secolo, da Dante Bruno Marrocco. Ringrazio Don Domenico La Cerra, che me ne ha fornito copia. L'intero carteggio è composto da pagine di presa locale non trascurabile.
SOMMARIO
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Fonti archivistiche, bibliografiche e abbreviazioni
- Archivio Apostolico Vaticano (AAV)
- Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), Carteggi di Giuseppe Toniolo (CGT)
- Dante Bruno Marrocco, Tre lettere di Giuseppe Toniolo a Giacomo Vitale in Studi Economici e Sociali, volume IV, anno 1966, rivista pubblicata dal Centro Studi Toniolo, Pisa
- Dizionario Biografico degli Italiani (DBI)
Introduzione
Per un ritratto di Don Giacomo Vitale1 da giovane è necessario stabilire dei precisi termini cronologici che possiamo collocare tra il 1909 e il 1913, tempo in cui intrattenne una corrispondenza epistolare con il professore d'origine trevigiana Giuseppe Toniolo2, polo d’attrazione culturale per intere generazioni di allievi. L’intellettuale veneto, grazie ad una visione à tout azimout, fu in grado di garantire al pontificato di Leone XIII-, nella cui enciclica Rerum Novarum del maggio 1891, pur evidenziandosi una spiccata attenzione ai problemi economici e sociali a spettro continentale, si dimostrava in realtà un’aperta avversione non solo alla SPD tedesca e alle riforme epocali introdotte dal principe Otto von Bismarck, ma anche una chiara condanna delle idee liberali-, un non comune apporto teoretico.
Don Giacomo, laureatosi a Pisa nel giugno 1910, e tornato nella diocesi alifana, cercava dal venerato maestro utili suggerimenti per i più disparati aspetti di vita pratica e azione sociale. Sappiamo poco, invero, del pensiero di Don Giacomo, a differenza della ricca bibliografia che illumina l’intera vita di Toniolo .
Possiamo soltanto rifarci a qualche idea che, di tanto in tanto, emerge dagli scritti del colto sacerdote di San Gregorio Matese, in primo luogo, dalla sua tesi di laurea, Intorno all’elemento filosofico nei poeti del Dolce Stil Novo, discussa con il professor Alessandro Paoli -, studioso di logica, filosofia e letteratura-, per lunghi anni insegnante nell’ateneo pisano. Paoli fu autore di numerosi studi filosofici, prevalentemente sui pensatori del Settecento italiano ed europeo, e di un manuale di logica per le scuole.
La tesi di laurea di Don Giacomo è divisa in quattro parti: La donna angelicata; Vita attiva e vita contemplativa; Spiritelli e Filosofia; Teorie estetiche dei poeti del Dolce Stil Novo. Il giovane sacerdote è prodigo di citazioni-, riportate con acribia filologica-, che costituiscono un elaborato complesso esegetico, con nuove ipotesi che aprono altrettanti campi di ricerca. Mostra di aver studiato un’aggiornata bibliografia, di conoscere molto bene la storia della filosofia medievale, passando in rassegna tutta la produzione scientifica italiana sulle teorie estetiche dei poeti del Dolce Stil Novo, esaminandone, in merito, gli autorevoli pareri di Francesco D’Ovidio3 e di Benedetto Croce. Del filosofo abruzzese evidenzia uno dei temi portanti. Per Croce, infatti, la filosofia è sempre: Conoscenza di relazioni di cose, e le cose sono intuizioni. Le intuizioni sono: questo fiume, questo lago, questo bicchiere d’acqua; il concetto è l’acqua, materia d’intuizioni infinite ma d’un concetto solo e costante.
Leggendo tra le righe del poderoso lavoro, potremmo prenderne qualche spunto, per farci un’idea di cosa pensasse Don Giacomo, di quale fosse la sua visione del mondo. Il sacerdote poggiava le proprie convinzioni, fermamente, sulla dottrina tomistica, laddove scriveva:
Per causa di un uomo, tutti, quando veniamo al mondo, portiamo l’impronta incancellabile di quattro ferite: vulnus ignorantiae, - la mente, a stento, dopo molto tempo, e non senza mescolanza di molti errori, arriva a conoscere il vero, quando vi arriva! ; vulnus malitiae, - il cuore è prono al male, vede il bene, l’approva ed al peggior s’appiglia; vulnus infirmitatis, - l’appetito irascibile è tardo nel superare le difficoltà, è facile a spazientirsi; vulnus concupiscientiae, l’appetito concupiscibile cerca immoderatamente non ciò che il fedele consiglio della ragione suggerisce, ma soprattutto i beni sensibili, anche contro la ragione stessa.
Nella definizione del vulnus malitiae, Don Giacomo usò un espediente da fine letterato, riprendendo un famosissimo verso del poeta latino Ovidio4. Più avanti, il sacerdote dava un giudizio totalmente negativo della filosofia razionalistica, che ipotizzava l’esistenza dell’uomo senza il concetto di una divinità superiore e immanente: L’affermazione di un’eguaglianza, di una nobiltà nell’uomo, perché uomo e semplicemente uomo, non poteva venire e non venne difatti se non ai giorni nostri, dopo cioè che la filosofia razionalistica ha negato l’esistenza del soprannaturale e il domma del peccato originale. Per filosofia razionalistica Don Giacomo intendeva quella di Spinoza o di Condorcet, autori che ammettevano la possibilità di vivere senza porsi il dilemma se credere o meno in un’entità trascendente. Per il filosofo olandese l’uomo, dotato di ragione, non doveva confidare in altri che in sé stesso. Di converso, il colto sacerdote di San Gregorio non concepiva altra esistenza se non nell’amore divino e tutto derivava da Dio: L’uomo non ha de suo nisi mendacium et peccatum, è un essere impotente, vile, spregevole: ecco il domma teologico. In antitesi alla fede, c’è la filosofia razionalistica, secondo cui : L’uomo è naturalmente buono e grande; con la forza della sua ragione crea il diritto, la scienza, la religione, Dio stesso: ecco il domma razionalistico.
Aborrendo una visione laica delle cose mondane, Don Giacomo si rifugiava nella potente costruzione filosofica di San Tommaso d’Aquino, infatti, nella sua tesi, in modo dicotomico, il giovane sacerdote divideva in due i processi che avevano modificato profondamente la storia moderna del mondo civile: l’intervento della grazia divina e la rivoluzione francese. È evidente che lo studioso amasse schematizzare, porre i corni del dilemma sempre in modo chiaro e limpido. Di conseguenza il suo lavoro scorreva-, nonostante la prosa reboante del tempo-, in modo esplicativo e assiomatico e ogni teoria, anche la minima ragione, erano dimostrate in maniera apodittica.
Della grazia di Dio, come divina provvidenza, aveva una concezione manzoniana, salvifica, e pertanto diceva: Gli uomini divengono uguali e nobili tutti, divenendo tutti figli di Dio con la grazia: ecco la rivoluzione religiosa. Della rivoluzione francese, sintesi delle teorie illuministiche, osservava: Gli uomini sono uguali e nobili perché uomini: ecco la rivoluzione francese. Era sottinteso che l’uomo non bastasse a sé stesso per Don Giacomo, che poi esprimeva un proprio giudizio implacabile: Non si possono confondere dunque i due concetti di nobiltà all’istesso modo che non si può confondere lo spirito che animò la rivoluzione francese con lo spirito che animò le libere democrazie dei comuni italiani: queste furono preparate e favorite dall’idea di uguaglianza cristiana, dalla condotta che il papato tenne contro le eresie e i moti ereticali, e proclamavano re Gesù Cristo, e battevano moneta che portava l’effigie della Vergine, come a Pisa, o di un santo, come il San Giovanni di Firenze. Un’esaltazione del Medioevo, questa, che era propria dell’ambiente culturale vicino al Toniolo e se si leggono i titoli degli articoli pubblicati nella Rivista internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie si vedrà che molti sono dedicati a temi medievali, spesso in termini parenetici.
La rivoluzione francese, per Don Giacomo, aveva basi fragili: Fu preparata dagli Enciclopedisti e decretò il trionfo della Dea Ragione. Come uomo di fede si capisce che per Don Giacomo non esistesse salvezza al di fuori della Chiesa, secondo la celebre frase di San Cipriano:Salus extra ecclesiam non est.
Dal piano puramente intellettuale passiamo a quello sociale, che ci offre una dimensione più concreta e potenzialmente operativa del giovane sacerdote matesino, che voleva inserirsi nella vita attiva e sociale delle organizzazioni cattoliche della diocesi di appartenenza: il suo cammino era segnato e la scelta obbligata.
Nel luglio del 1904 era stata sciolta l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici.
Al suo posto, seguendo i principi dell’enciclica Il fermo proposito, emanata da papa Pio X l’11 giugno 1905, sorsero, come rileva Fausto Fonzi5, tre grandi unioni: l’Unione Popolare, l’Unione Economico – Sociale e l’Unione Elettorale. Per comprendere l’essenza dell’Unione Popolare6, quale fosse il suo compito, Giorgio Candeloro7 efficacemente riporta che essa: Era destinata a dare a tutte le istituzioni forza e compattezza poiché, con la sua organizzazione strettamente personale, spronava gli individui a entrare nelle istituzioni particolari, li addestrava al lavoro pratico e veramente proficuo, ed univa gli animi in un unico sentire e volere. Queste erano le intenzioni di Papa Pio X. Non c’era che d’agire, di fare in modo che la teoria diventasse prassi. Confidando nella paterna e benevola guida del Toniolo, Don Giacomo gli apriva il proprio animo, esprimendo atti concreti, speranze ed umori.
Il carteggio tra i due, per ragioni inconoscibili, non è completo, essendoci pervenute quattro lettere del Toniolo-, di cui tre a Don Giacomo e una al rettore del Seminario vescovile di Piedimonte, Don Pietro Del Prete-, e sette, invece, di Don Giacomo al professor Toniolo. Tutte trattano dei più vari argomenti, segno tangibile di una molteplicità d’interessi. L’impegno sociale di Don Giacomo è ampio e le sue notazioni, di riflesso, ci offrono un quadro articolato di vita paesana, di propositi attuati e/o attuabili. Sorprendente è la quantità d’iniziative culturali e sociali che si tenevano in Piedimonte.
Nel giugno del 1909 Giuseppe Toniolo informava monsignor Pietro Del Prete della salute malferma di Don Giacomo, ma bisogna convenire che nonostante la debole tempra fisica, quest’ultimo fu sempre combattivo e determinato. È del gennaio 1910 l’unico articolo scritto da Don Giacomo per la Rivista internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, una recensione al libro Il Divino Artista della scrittrice trentina Luisa Anzoletti8.
Il sacerdote, dopo aver letto il saggio, fa l’apologia dell’architettura medievale-, sintesi di una società più cristiana-, paragonandola allo stile Liberty, eclettico e non facilmente definibile. Per la purezza delle forme e della simmetria, Don Giacomo, predilige uno stile semplice e genuino, emanazione di una fede sincera, a differenza del disordine creativo che non esprime limpidezza d’animo.
Da Pieve di Soligo, nel settembre 1910, il prof. Toniolo, nello scrivere a Don Giacomo, faceva ampi riferimenti al modernismo9, corrente di pensiero introdottasi in seno alla Chiesa cattolica.
Alfred Loisy10 in Francia e Don Ernesto Buonaiuti11 in Italia avevano diffuso le idee moderniste che-, con la loro originalità scientifica e metodologica-, mettevano in discussione i principi consolidati della vita ecclesiale, volendo modificare la Chiesa dal basso e renderla più democratica e vicina alle esigenze dei fedeli.
Anche lo scrittore Antonio Fogazzaro era pervaso da pulsioni moderniste che propagandava nei propri libri, come nel romanzo Il Santo. Papa Pio X, con l’enciclica Pascendi Dominici Gregis, bloccò i concetti del modernismo. In quei tempi si avvertiva il timore che la Chiesa potesse perdere la propria millenaria saggezza, affidandosi a idee nuove e fallaci. Il documento vaticano, quindi, difendeva la tradizione e agiva in senso conservatore e bloccardo verso sacerdoti di cultura più progressiva. Giuseppe Toniolo e Don Giacomo Vitale-, cattolici devotissimi-, non potevano concepire una vita che non fosse la più ligia ai dettami del Papa. Il 14 ottobre 1910 il prof. Toniolo descriveva nei minimi particolari l’azione che i cattolici avrebbero dovuto intraprendere nella società civile. Nella lettera scritta per gli auguri di Natale del 1910, Don Giacomo si diceva dispiaciuto che fosse stato trasferito nella diocesi di Aversa il vescovo Settimio Caracciolo di Torchiarolo12, proprio quando quest’ultimo si era persuaso ad avviare un po’ di azione sociale cattolica.
Nel gennaio 1911 il giovane sacerdote scriveva al suo maestro Toniolo di argomenti prevalentemente culturali, mostrandosi in netto disaccordo con quanto affermato da Gioacchino Volpe-, nella rivista Nuova Antologia, in cui il famoso storico scrisse un breve ma denso saggio dal titolo Chiesa e democrazia medievale e moderna quale prolusione dell’anno accademico 1907- 1908 presso l’Accademia scientifico - letteraria di Milano.
Gioacchino Volpe, come ha posto in evidenza Cinzio Violante,13 era vicino al gruppo dei modernisti milanesi Alessandro Casati14 e Tommaso Gallarati Scotti15 e, pur non condividendone la visione religiosa, riteneva che essi potessero rinnovare la Chiesa liberandola dalle rigidità strutturali, da incrostazioni eterogenee, mettendola così in grado di non essere ostile, anzi di secondare la democrazia nel suo estendersi fino ai ceti sociali più bassi. Don Giacomo voleva replicare allo storico abruzzese, ma il suo proposito-, col tempo-, si eclissò.
Ad aprile 1911-, in Piedimonte-, tra gli operai del Cotonificio Berner scoppiò uno sciopero per rivendicare più eque condizioni di lavoro e un migliore salario. Irremovibile, in un primo tempo, apparve la posizione del proprietario, Guglielmo Berner16, che non cedeva di un passo. Don Giacomo colse al volo l’occasione di fungere da intermediario, registrando le esigenze degli operai e le condizioni dello stesso Berner. Sottopose la questione a Toniolo, ricevendone una particolareggiata risposta che prefigurava un accordo favorevole a entrambe le parti.
Il giovane sacerdote svolse così il ruolo di facilitatore per una piattaforma di contrattazione più avanzata, sostituendosi al debole, se non inesistente, sindacato. Verso la Pasqua del 1911 Don Giacomo informava Toniolo di essere impegnato in una campagna antimassonica a Piedimonte.
In una missiva, scritta durante l’estate 1911, descriveva a Toniolo la vita sociale delle iniziative cattoliche in Piedimonte: il paese era stato lambito da un’epidemia di colera e Don Giacomo-, con il Circolo cattolico-, si attivava per tenere conferenze sulla profilassi e abbattere pregiudizi atavici contro i medici.
Nel marzo 1912 Don Giacomo deplorava l’impresa libica, adducendo a motivo che ci fosse ancora tanto da fare nel Mezzogiorno d’Italia. È interessante notare come il sacerdote fosse contrario all’iniziativa giolittiana d’invasione della Libia, costatando l’arretratezza dei nuovi coloni, che nulla avrebbero portato con loro se non un paio di braccia. Bisognava dapprima istruire le plebi rurali, sistemare le tante cose che non andavano bene, incrementare l’economia nazionale attraverso una politica che sviluppasse le risorse interne. A tale riguardo è accattivante la similitudine di Don Giacomo ai grandi meridionalisti del suo tempo, fra tutti Gaetano Salvemini.
D’altronde il sacerdote, intellettuale di un cattolicesimo sociale progressista, faceva di continuo una lucida analisi della realtà, assumendo il vero come dato imprescindibile. La verità- come scriveva Gramsci- è sempre rivoluzionaria. È del 1912 anche una lettera al Santo Padre in cui Don Giacomo chiedeva una dispensa dal decreto Docente Apostolo per i sacerdoti: tale decreto proibiva ai preti di partecipare ai consigli d’amministrazione bancari e soltanto attraverso una domanda al papa se ne poteva essere esentati.
Nell’ultima lettera a Toniolo-, del 1913-, Don Giacomo scriveva delle proprie iniziative in campo sociale, avendo fondato un giornale locale.
Pochi anni dopo-, precisamente nel 1918-, Don Giacomo chiedeva un’altra dispensa al Papa per lo stesso obiettivo, cioè di poter far parte del consiglio d’amministrazione di una banca piedimontese.
Tutto ciò rende la misura dei suoi propositi in ambito sociale, che non dovevano rimanere sulla carta, ma essere necessariamente concretizzabili secondo l'empito dell'anima creatrice.
L'epistolario
1909
Giuseppe Toniolo a Don Pietro Del Prete, 7 giugno 1909
Informazioni sulla salute di Don Giacomo
Pisa, li 7 Giugno 1909
Ill.mo Rev. Sig. Rettore Del Prete17,
Io ebbi l’onore di comunicarle l’esito veramente felicissimo degli esami di sessione straordinaria di aprile del sacerdote Vitale. Egli se n’incoraggiò talmente, che mercé lo studio sempre più assiduo sorretto da una mente vigorosa e sottile, si proponeva di affrontar in luglio o alla fine del corrente giugno, gran parte degli esami rimanenti, per completare poi la sua tesi in autunno e laurearsi a novembre, certo con grande onore.
Disgraziatamente però debbo comunicarle-, per desiderio di lui stesso, impotente a scrivere-, che da giovedì scorso si pose a letto con febbre non più interrotta e con acutissimi, sebbene vaganti, dolori artritici, che assolutamente gli rendono impossibile il minimo movimento nel letto, senza soccorso altrui. Il medico è impensierito, perché alla sofferenza non piccola e certo lunga si aggiunge una debolezza di cuore alquanto allarmante.
Egli è assistito nella famiglia ove alloggia, presso casa mia, da una santa e caritatevole signora, giorno e notte, con grande pena e fatica, che la medesima-, finché possa reggere-, affronta ben volentieri. Ma potrà continuare?
In ogni modo il Vitale fece scrivere al cugino medico in Alife-, che oggi gli telegrafò-, confortandolo.
Ma il Vitale, avvilito d’animo e prostrato di forze, m’incaricò d’informare anche Vostra Signoria Reverendissima e Sua Eccellenza Monsignor Vescovo della prova cui Dio volle sottoporlo, raccomandandosi alle lor preci. Se egli superasse in poche settimane la malattia, io non mi preoccuperei dei suoi studi. Credo che a novembre darebbe-, del pari, con successo-, esami e laurea, tutto di un tratto. Intanto speriamo in Dio e nella Vergine Santissima.
Con perfetto ossequio,
Devotissimo Prof. Giuseppe Toniolo
1910
Giuseppe Toniolo a Don Giacomo Vitale, 24 settembre 1910
Considerazioni del Toniolo sui pericoli del modernismo18
Pieve di Soligo (Treviso), 24 Settembre 1910
Caro Vitale!
Dunque questa mia deve avere l’espressione di un saluto ed augurio nella sua partenza per il Meridione.
Quanto Ella mi scrive di lassù, se mi addolora per molti aspetti, non mi sorprende, perché delle condizioni del luogo e delle rispettive personalità sono troppo edotto; e perché non è da meravigliare che chi fu chiamato a parlare rispecchi le idee di colui che lo invitò.
Quello che a me preme (e spero che me ne darà prove crescenti e conforti veraci) gli è che rimanga convinto da più anni di esperienza-, ed anche da questa ultima prova-, come negli stessi indirizzi e principi sociali la verità e le sue benefiche conseguenze pratiche si trovino sul cammino diritto che ci viene segnato dalla Chiesa e dal Pontefice nei suoi atti pubblici; cammino che mentre ci premunisce da aberrazioni fatali, di cui proprio in questi dì vediamo le ultime e lagrimevoli soluzioni ruinose, ci tiene ancor remoti da quelle interpretazioni e opinioni soggettive di alcuni credenti che-, inconsciamente, ed anche con buona intenzione-, moltiplicano difficoltà ed ostacoli a seguir quella voce, che unifica e sospinge verso il bene della società, incluso in quello della Religione. Forse anch’essi hanno la loro funzione, quella di farci cauti e seguire quell’unica via della Chiesa.
Mi pare di non dire ciò senza fondamento di verità. Pio X, ora, colla lettera ai Sillonisti19 non ci avvertì quanto facilmente-, sotto le influenze morbose odierne-, si perverte un programma santo e salvatore? Ma nel tempo stesso non contribuì (quanto non fece mai così esplicitamente) a riconfermare quelle dottrine sociali, che formano il fondo della democrazia cristiana sulle tracce tradizionali e di quelle di Leone XIII?
E anche nella lettera a Decurtins20 non fece forse, additando i pericoli di una sospetta letteratura, un incoraggiamento novello ed esplicito in pro di pubblicazioni letterarie cattoliche?
Avverto ancora che alcune dottrine rientrano-, anche fra i Cattolici-, nel campo dell’opinabile e alle volte si atteggiano e si pongono anche autorevolmente in sospetto, solo perché in seno a certo ambiente storico, e per lo stato psicologico degli animi impreparati possono facilmente essere male intese ed abusate, sicché noi ottemperando a quelle norme, non faremo-, nell’avvenire-, che contribuire all’accettazione più agevole e schietta di alcuni casi o soluzioni pratiche.
Dico ciò-, perché mi dorrebbe traesse dalle impressioni di lassù deduzioni che eccedessero la portata delle cagioni-, scoraggiandola dal proseguire su quel terreno di amorosa adesione intellettuale e morale a quegli autorevoli giudizi che oggi vieppiù s’impongono per la minaccia di un grossolano anticlericalismo e le insidie di una scienza ingannatrice, che conduce all’eresia ed allo scetticismo.
Certo è che codeste opposizioni ed indiscrezioni o resistenze di confratelli d’armi ci arrecano pene, ma non ci devono scuotere dalla nostra ferma fede intorno a quella Chiesa che-, come il Suo divino Maestro-, fu sempre solutio omnium difficultatum21. Appunto perché io credo e aderisco alla Chiesa, non mi reputo obbligato a dar soverchia importanza alle mutevoli opinioni dei singoli. Che le pare? Eh via! Sursum corda. Ammettiamo la nostra debolezza, e la necessità di umile cautela, specialmente in certi momenti, ma poi teniamo fisso l’occhio sereno al faro contro le cui basi-, da secoli, senza scuoterlo-, s’infrangono tutte le correnti del pensiero umano, contribuendo anzi a rendere più luminosa la luce divina che splende in alto, non solo a salvezza della fede, ma anche della scienza e della civiltà.
Aspettiamo senza inquietudine, con docili disposizioni di animo, con forte pazienza, né mancheranno consolazioni e vittorie.
Anche oggi il congresso di Montreal22 è l’omaggio, dei più grandiosi-, mi scrive di là Pietro Pisani23, che Ella conosce-, dei primi tempi cristiani, della fede positiva e cattolica contro il modernismo religioso dissolutore di tutti i dogmi; e la adesione di Marc Sangnier24 e dei Sillonisti è la rinascita dell’antica democrazia sociale cristiana, che pregiudizi individualisti e passioni politiche minacciavano di spegnere; e la rigida formula del giuramento di Pio X-, imposta ai professori di seminario-, è la rivendicazione di una scienza obbiettiva e della ragione assoluta del vero contro al modernismo filosofico relativista e scettico.
Non sono-, queste-, promesse di progresso, avvenire per la civiltà? E rispetto alle affermazioni soggettive di un conservatorismo sociale gretto, le tradizioni della Chiesa e le sapienti vedute larghe e positive di Leone X si trovano oggi rimesse in onore dalla critica sicura del Padre Lugan25 nel suo libro L’insegnamento sociale di Gesù, dedicato al Card. Merry del Val.26 Dunque stia di buon animo anche fra difficoltà che so bene colà si aggravano, ma l’esito non mancherà felice come premio a chi crede e spera sacrificandosi nella pazienza.
E continui a studiare e ad operare con rettitudine d’intenzione. E mi scriva.
E mi riverisca S. E. il Vescovo27 e il Prof. Rettor Del Prete e-, fra i recenti amici-, il Prof. Pennacchio.
Suo affezionato Giuseppe Toniolo
Giuseppe Toniolo a Don Giacomo Vitale, 14 ottobre 1910
Analisi del Toniolo sulle dinamiche dell’associazionismo cattolico.
Pieve di Soligo (Treviso), 14 Ottobre 1910
Caro Don Vitale!
Grazie della sua lettera dalla sua residenza normale. Quanto mi scrive amareggia ogni anima buona; tanto più che ciò non è che un sintomo di più di quanto manifestatamente-, e sistematicamente-, avviene per la scristianizzazione della società universale, in special modo delle nazioni latine.
Preghiamo ed operiamo; almeno chi può come Ella, che si propone un programma compiuto di azione, che mi pare schietto ed efficace; e spero la fiducia del Vescovo Suo continui a soccorrerla.
Gli avversari, combatterli a fronte alta, i buoni (specie la gioventù, anche in tenera età per carità) stringerli in associazioni-, di ogni specie-, cattoliche. Ma quegli elementi intermedi, vacillanti, disgustati dai partiti anticristiani, ma timidi e paurosi di entrare in Associazioni cattoliche di fatto e di nome? Quid faciendum?
Ecco il suo quesito veramente grave, sebbene non nuovo: era quello stesso che si proponevano quei cattolici, i quali poi non furono approvati dalla lettera pontificia a Medolago28. Se l’espediente in forma di deroga fosse ben giustificato e quasi inevitabile, sarebbe da ricordare-, all’occasione-, di quella Lettera autorevolissima cui tutti (anche talora in sacrificio) giustamente aderiscono, e che i giornali di Roma (lo stesso Osservatore Romano) riferiscono essere il pensiero di Sua Santità, cioè che alle eccezioni provvedano i Vescovi.
Anche in un Documento dell’Unione Economica Sociale sta scritto: Le deroghe eventuali circa lo spirito e l’indirizzo religioso, che in qualche luogo potessero ritenersi opportune, dovranno essere concesse dai rispettivi Ordinari e comunicate al Segretariato (a Bergamo).
Bisognerebbe forse che a simili ordinamenti eccezionali (concessi dal Vescovo) non partecipasse come Assistente ecclesiastico un sacerdote, ma il tutto fosse presieduto e comunque diretto da un laico sicuro, il quale-, gradualmente-, preparasse gli animi dei membri a concetti religiosi sì che l’istituzione avesse carattere e ufficio transitorio. Ciò è difficile, né senza pericoli. Forse che l’istituzione eccezionale non trapassasse a piena mentalità sistematica e che le stesse Associazioni cattoliche non si trovassero abbandonate per preferire quell’altra scolorita? Queste circostanze di fatto non possono essere ponderate che sul luogo da persone autorevoli e prudenti. Tanto per rispondere al suo invito, ma senza assumere responsabilità. Intanto preghiamo, e coraggio.
Suo affezionato
Giuseppe Toniolo
P.S. L’articolo suo ?… Spero sempre…29
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo, 22 dicembre 1910
BAV, CGT, cartella 34 (5910-5955), lettera 5933, anno 1910, ottobre- dicembre
Nella prima parte Don Giacomo fa delle considerazioni sul congresso dell’Unione Popolare svoltosi a Modena nel novembre 1910, mentre nella seconda mostra le proprie perplessità sul trasferimento del vescovo di Alife-, Monsignor Settimio Caracciolo di Torchiarolo-, alla diocesi di Aversa.
Illustrissimo Signor Professore,
Un’infinità di piccole cose e la vergogna di non aver ancora-, dopo tanto tempo-, scritto quell’articolo che le avevo promesso, mi hanno impedito di scriverle sinora. Un po’ la scuola al Seminario, un po’ la propaganda e l’azione sociale che cerco di spiegare-, d’intesa col Vescovo30-, nella diocesi, mi tolgono, se non tutto, certo la miglior parte del tempo. Domenica tenni una conferenza al circolo giovanile cattolico, costituito a Piedimonte, e la domenica precedente ne tenni un’altra al circolo operaio di S. Gregorio. Se anche un po’ di bene se ne ricava, è poco, troppo poco a paragone del bisogno. Bisognerebbe rifar da capo tutta la nostra educazione intellettuale e morale; e questa non è impresa né facile né tale che si possa compiere in poco tempo.
Ho letto attentamente i resoconti del Congresso di Modena31 e son rimasto un po’ male impressionato dall’ostentazione-, mostrata dalla maggior parte dei congressisti-, di fedeltà e di ubbidienza alla Santa Sede. Non ho compreso poi bene che cosa si voleva dall’Unione popolare, e la lettera del Santo Padre al Crispolti.32, a congresso finito, m’è parso contenesse-, tra rigo e rigo-, non un’approvazione ma una condanna delle deliberazioni prese. M’ingannerò, ma queste sono state le mie impressioni. Il mio Vescovo è stato promosso e trasferito ad Aversa. Si aspetta, quindi, (non presto, però) un Vescovo nuovo. Se lei potesse mettere una buona parola, perché venga qui un Vescovo veramente illuminato e degno, concorrerebbe nel modo migliore alla redenzione di questa disgraziata regione. Già sono incominciati gli intrighi per far riuscire dei meridionali poco degni: se i loro tentativi potessero andare a vuoto, che fortuna! L’attuale Vescovo-, andando ad Aversa-, vuol tenermi-, qualche tempo-, presso di sé per iniziare ad avviare anche là un po’ di azione sociale cattolica. Perché, quello che pareva impossibile, è avvenuto: il Vescovo è totalmente cambiato d’idee e vuole e favorisce istituzioni e movimenti che-, fino a poco tempo fa-, condannava e impediva. L’anticlericalismo e la massoneria-, importati qui dove finora erano ignorati anche di nome-, hanno fatto il miracolo. Peccato che il Vescovo debba andar via proprio ora che aveva aperto gli occhi!
Spero che lei e tutti di casa godano di buona salute. Mi son permesso inviarle dei torroni del nostro Sannio: non è gran cosa, ma lei gradirà l’intenzione. Le auguro ogni bene a lei ed ai suoi. Mi creda sempre Devotissimo ed Obbedientissimo,
Sacerdote Giacomo Vitale, Piedimonte d’Alife 22- XII- 1910
1911
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo, Piedimonte d’Alife, gennaio 1911
BAV, CGT, cartella 32 (5431- 5486), lettera 5477, anno 1908, dicembre33
Nella prima parte Don Giacomo palesa l’intenzione di una probabile replica a un articolo di Gioacchino Volpe su una Chiesa sempre schierata dalla parte dei potenti, nella seconda riflette su un decreto pontificio che proibiva ai preti di occupare cariche amministrative nelle Casse Rurali.
Illustrissimo Signor Professore,
Una leggera indisposizione-, che mi ha però visitato da qualche giorno dopo Natale sino ad oggi-, mi ha impedito di rispondere subito-, come avrei desiderato-, alla sua che s’incrociò con la mia. Rispondo prima alle sue domande. La mia tesi è in corso di pubblicazione; anzi ne deve essere pubblicata già una parte. Io però non ne so niente, perché, ignaro delle consuetudini, non scrissi sulle bozze di stampa che avrei voluti degli estratti, e così i caratteri sono stati scomposti e non ho avuti gli estratti e non ho avuta neppure una copia del Giornale dantesco34, a cui non sono abbonato. Sarò costretto, dunque, a comprarlo. Ho ricevuto il Thovez35, che poteva veramente tenerlo, poiché le piaceva. Le son grato, poi-, con tutta l’anima-, degli incoraggiamenti che mi dà a studiare e scrivere per la Rivista Internazionale. Non può immaginare il bene che mi fanno le sue parole: mi sento meno avvilito e più pronto a lavorare e a far del bene. Se fosse possibile, accetterei volentieri l’incarico delle recensioni mensili, oltre a scrivere qualche articolo.
Di questi giorni leggevo nella Nuova Antologia (16 settembre e 1° ottobre 1908) uno studio di Gioacchino Volpe, dal titolo suggestivo Chiesa e democrazia medievale e moderna. L’autore non si mostra favorevole verso l’operato della Chiesa a pro’ della democrazia, e vede, per esempio, nella scomunica lanciata dai Vescovi di Firenze, Pisa, Fiesole, contro le femminelle povere perché non fanno così buon filato -, come dice Fra Giordano da Rivalto36-, nient’altro che un servizio, (uno dei tanti) prestato dalla Chiesa alla grassa borghesia finanziaria-, commerciale e industriale-, all’alta banca, di cui aveva bisogno per agevolarsi il cammino nel mondo e raccogliere le sue rendite dai paesi della cristianità. Io avrei il desiderio di scrivere una confutazione analitica dello studio del Volpe, ma mi spaventa l’erudizione immensa dell’Autore, che porta a sostegno della sua tesi una lunga serie di fatti; mi ci vorrebbe, poi, troppo tempo, troppe indagini, troppo studio. Di questi giorni, il Vescovo mi ha promosso Canonico di una Collegiata, con mio poco entusiasmo, perché son cose a cui io non tengo.
Il recente decreto pontificio che proibisce ai Sacerdoti di occupare cariche amministrative nelle Casse Rurali, ha fatte ruinare, forse per sempre, le iniziative già prese: una Cassa, già costituita e fiorente, sarà costretta a chiudersi tra breve. Qui dove non c’è cattolici-, non dico organizzati ma coscienti e d’azione-, è impossibile far sorgere e prosperare istituzioni cattoliche a cui non possano appartenere Sacerdoti. Sarà tanto di guadagnato per le Casse mentre che hanno già incominciato a mandare degli abili propagandisti. Ma lasciamo fare al Signore.
Ossequi in Casa, Devotissimo e Obbedientissimo,
Sacerdote Giacomo Vitale
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo , Piedimonte d’Alife, 13 marzo 1911
BAV, CGT, cartella 35 (5977- 6005), lettera 5988, anno 1911, marzo- aprile
Don Giacomo informa il professore Toniolo circa una serie di conferenze tenutesi in Piedimonte e paesi limitrofi contro la massoneria di Terra di Lavoro.
Illustrissimo Signor Professore,
Sono sempre occupato a gettare un seme d’organizzazione in un terreno così poco disposto e poco fertile. Tre volte la settimana ho-, al Circolo giovanile-, delle conversazioni famigliari su temi scelti dai giovani: ciascun giovane può presentarmi delle difficoltà, può chiedermi degli schiarimenti ed io intavolo una conversazione sulla difficoltà e sullo schiarimento richiesto.
Di questi giorni, per esempio, non ho parlato d’altro se non di Giordano Bruno, dell’inquisizione e del libero pensiero: erano i discorsi vivi del giorno. Sono intervenuti in massa, anche gli anticlericali e i massoni per attaccare e contraddire; ho potuto fare un po’ di bene, e mi son persuaso che producano un’efficacia pratica maggiore codeste conversazioni fatte alla buona-, in modo accessibile a tutti-, che non le conferenze preparate e studiate.
Infine col Rettore Del Prete, che la ossequia, abbiamo impegnata una polemica con la massoneria di Terra di Lavoro; i massoni di qui dipendono da Ettore Ferrari37; noi abbiamo potuto avere documenti segreti dai massoni seguaci di Saverio Fera38 e così mettere alla luce parecchie magagne massoniche e costringere gli avversari al silenzio.
Insomma, qui-, dove prima si dormiva tra due guanciali-, c’è ora un risveglio promettente per opera di alcuni buoni cattolici, laici e sacerdoti, e un po’ anche per merito degli avversari, i quali, con gli atti e con le parole, sono andati tanto oltre da scuotere il sonno di tanti. Doveva venir qui Pasquinelli39per un giro di conferenze, aveva scritto e promesso, e poi non si è fatto più vivo neppure per lettera, sebbene continuamente sollecitato.
Se lei vede il Prof. Rosselli40 non potrebbe farci la carità di mettere una buona parola perché sia mantenuta la promessa fattaci? La ringrazio anticipatamente tanto, anche pei miei amici. Ho letto di una sua gita di propaganda in America: è vera? Non le riuscirebbe di troppo nocumento alla sua salute così delicata? O verrebbero anche tutti di famiglia?
Accolga intanto i miei più vivi auguri per l’onomastico: come son triste perché non posso essere costà per darglieli a voce e avere il piacere di passare un po’ di tempo con lei, conversando di tante cose belle e buone! Accolga lei e i suoi i miei più vivi ossequi.
Piedimonte d’Alife, 13 Marzo 1911
Devotissimo e Obbedientissimo,
Sacerdote Giacomo Vitale
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo, Piedimonte, primi d’aprile 1911
BAV, CGT, cartella 28 (4716- 4739), lettera 4737, anno 1906, ottobre-dicembre41
Don Giacomo richiede delucidazioni sui comportamenti da tenersi in relazione ad uno sciopero degli operai tessili al Cotonificio di Piedimonte per un’eventuale mediazione.
Illustrissimo Sig. Professore,
È scoppiato improvvisamente uno sciopero parziale in un cotonificio di Piedimonte. La ragione è questa: in tutti gli stabilimenti di filatura-, pare-, è regola generale che al reparto di selfactings42 ogni filatore attenda a due macchine, lavorando a cottimo.
Nel caso che una di queste due macchine non possa lavorare per mancata preparazione-, o per guasto-, allora il filatore attende ad una sola macchina; ma poiché il guadagno verrebbe ad essere minore, così il filatore ha un supplemento di paga, che nel cotonificio Berner di qui ammonta a £ 1, 30 al giorno. Orbene-, per la crisi dell’industria cotoniera-, il Berner ha soppresso il supplemento di paga e ordinato che d’ora in poi ogni filatore debba attendere sempre a due macchine.
Gli operai hanno scioperato; il Berner si mostra pronto a queste concessioni:
1°) di far guadagnare all’operaio-, col cottimo-, ciò che prima prendeva come supplemento (senza far niente); 2°) di non ridurre il numero delle giornate di lavoro ad un numero maggiore di quanto è stato fatto finora.
Nel tempo stesso dichiara solennemente che queste novità non sono novità, ma naturale esercizio del diritto di padrone, che può disporre liberamente dell’andamento delle macchine.
A me pare che il Berner abbia commesso un doppio sopruso: 1°) disconoscimento di un diritto già acquisito dall’operaio, di quello-, cioè-, di percepire £ 1,30 al giorno senza attendere a due macchine; 2°) affermazione di poter disporre pienamente e liberamente dell’andamento delle macchine ora e sempre, senz’alcun riguardo a concessioni già fatte e a impegni presi. Giudichi lei se m’inganno. Vorrei mettermi in mezzo per cercare di venire ad un componimento amichevole.
Trattandosi di quistione di principio e di diritti acquisiti non mi pare sia il caso di transigere. D’altra parte, però-, date le attuali condizioni dell’industria cotoniera-, è prudente consigliare a persistere in uno sciopero, che sarà certamente disastroso per l’operaio?
Potendo, desidererei vivamente un suo consiglio e la sua opinione al proposito. Perdoni se, pur sapendo di quante occupazioni è sopraccarico, io mi permetto rubarle un po’ del suo tempo prezioso. Di tutto la ringrazio anticipatamente, ed auguro a lei e alla sua famiglia ogni bene in occasione della Pasqua. Spero che non abbia a lagnarsi delle condizioni di salute. Io sto benissimo, come al solito. Mi creda intanto di lei devoto e obbedientissimo
Sacerdote Giacomo Vitale
Giuseppe Toniolo a don Giacomo Vitale, Pisa, 12 aprile 1911
Risposta del Toniolo con suggerimenti per una pacifica ricomposizione dello sciopero dell’aprile 1911.
Pisa, 12 Aprile 1911
Caro Don Giacomo Vitale,
Rispondo subito, come mi detta lo spirito del nostro programma cristiano, che è quello della giustizia per tutti, integrata da carità specialmente a pro’ dei lavoratori, e come suggeriscono le circostanze generali di fatto, in relazione alle quali bisogna fare applicazione di questi principi.
Se Ella riuscisse ad un componimento amichevole, farebbe atto ben consono e degno delle prossime solennità pasquali, che Le auguro felici, ringraziandola del resto delle sue precedenti lettere affettuose.
Io non sentenzio, io espongo una opinione, per quanto so e posso, in temi che hanno molto del relativo:
1) La regola generale negli stabilimenti di selfactings riguardante il supplemento (di £ 30) al filatone-, quando una delle due macchine non possa essere usufruita per mancata preparazione e per guasto-, è giusta e suggerita da lunga esperienza.
2) Ma dubito che gli operai possano accampare un diritto acquisito da chiedere in ogni caso il mantenimento di quella norma consuetudinaria. Se esistesse fra imprenditori ed operai (come vorrei fosse per legge), un contratto esplicito liberamente conchiuso fra le due parti e valevole per certa durata di tempo, la rottura del patto anzitempo darebbe luogo a un diritto acquisito vero e proprio e a rispettiva indennità a favore degli operai; come in un’ipotesi inversa a favore degli imprenditori.
Ma nello stato attuale delle leggi nostre e finché non intercedano che contratti taciti o l’accettazione di consuetudini di fatto-, senza designazione di tempo della loro osservanza-, l’impegno reciproco, qualunque esso sia, suppone, a mio avviso, sempre la clausola rebus sic stantibus, cioè la continuazione delle condizioni ordinarie delle industrie; sicché se quelle siano manifestamente mutate, verrebbe meno l’impegno-, si badi bene-, per ambedue.
3) Ed ora, che le condizioni dell’industria cotoniera passino una crisi generale, persistente, rovinosa, chi lo mette in dubbio? Se l’industriale imprenditore, in tali condizioni, trova inevitabile prescindere dalle consuetudini, credo non faccia atto arbitrario ed ingiusto. Se rovesciassimo l’ipotesi, e lo stato generale dell’industria cotoniera fosse talmente e durevolmente mutato da permettere anche più lauti compensi agli operai, questi non crederebbero di aver diritto, di chiedere più del compenso offerto da consuetudini antiche?
4) E potrebbesi accennare agli operai quanto siano gravi in tutta Italia le condizioni odierne dei cotonifici-, a danno di padroni e lavoratori insieme-, per persuadersi a non peggiorarle con agitazioni e scioperi che probabilmente non riuscirebbero che a sacrificarli di più.
Qui nel Pisano quasi tutte le manifatture di cotone a mano non lavorano più da due anni; poche donne in casa guadagnano-, al più-, 60 centesimi al giorno. La grande Ditta Pontecorvo ha pronto un secondo grande stabilimento meccanico di cotonificio; ma attende invano da lungo tempo miglioramenti della crisi e-, frattanto-, non lo apre affatto.
5) Bensì è cosa equa e vantaggiosa per gli operai avviare trattative col padrone, per rendere meno dure le loro condizioni sofferenti in questo periodo di crisi. Già la promessa di non ridurre le giornate di lavoro più di quanto è stato finora è qualche cosa; si potrebbe forse sperare in qualche lieve aumento di numero di quelle giornate in vista dello sperato attenuamento prossimo della crisi. L’altra promessa di far guadagnare all’operaio col cottimo ciò che prima prendeva come supplemento vale per ora o per l’avvenire?
Veda che si applichi fin d’ora; cosicché-, se ho ben inteso-, se nel cottimo si elevasse la quota di compenso per l’operaio per ogni unità di prodotto che quegli percepisce sopra un selfacting -, quando l'altro [selfacting] per forza maggiore tace, non lavora-, nell’insieme il guadagno per l’operaio rimarrebbe lo stesso che col sistema del supplemento.
E se fosse adottata anche per l’avvenire, non sarebbe ingiusta una combinazione per la quale si elevasse alquanto il compenso-, per unità di prodotto-, sempre in ogni caso, tanto sul lavoro di uno che di due selfactings, sicché il guadagno complessivo fosse proporzionato al numero dei selfactings in azione (o lavorativi); forse la soluzione sarebbe raccomandabile (a preferenza della consuetudine) perché l’operaio in media ricaverebbe quanto prima e di più, e l’impresario pagherebbe compensi in ragione del lavoro effettivo, e non già ora per il lavoro, ora per l’ozio forzato.
6) Ciò che non si può ammettere è che in operazioni industriali e quindi anche nei compensi e profitti ove sono interessate due parti-, padroni e operai-, una sola delle parti possa offrire ed imporre condizioni di lavoro al di fuori di un libero e pacifico contratto, o espresso o almeno tacito; e quello che è peggio, che una sola parte si riservi di notificare o infrangere impegni presi finché duri un contratto e finché non siano manifestamente mutate le circostanze sottintese sarebbe un autorizzare la violenza reciproca in luogo dei liberi patti e della loro osservanza, col metodo incivile di scioperi e serrate egualmente arbitrarie, ruinose per ambe le parti.
No; un uomo di senno-, come sarà certamente il rappresentante della ditta in questione-, non vorrà confermare questi procedimenti incivili.
Giuseppe Toniolo
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo, Piedimonte d’Alife, estate 1911
BAV, CGT, cartella 35 (6093- 6131), lettera 6126, anno 1911, novembre- dicembre43.
Nella prima parte si forniscono informazioni sulla vita dell’associazionismo cattolico, nella seconda-, invece-, ci sono delle notizie su alcuni casi di colera-, a Piedimonte-, durante l’estate 1911.
Illustre Signor Professore,
La vita attiva mi distoglie dalla vita contemplativa degli studi e mi mette in condizioni d’essere scortese e d’apparire ingrato verso quelli cui tanto debbo.
Lei non può immaginare quante volte ho preso la penna in mano per scriverle e poi non ne ho fatto nulla, distolto da una quantità di piccole cose! In queste stesse vacanze scolastiche non ho potuto godere di quella libertà che speravo. Purché si facesse del bene, non mi importerebbe d’essere così affaccendato. Ma il guaio è che, alle volte, osservando il poco che si fa-, e si fa maluccio-, [e paragonandolo] col molto da fare, mi piglia lo sconforto, e penso quanto meglio sarebbe per me abbandonare l’azione per darmi a una vita tutta di studi.
In questi giorni-, come incaricato locale dell’Azione popolare-, ho iniziate le adunanze mensili tra i soci: speriamo diano qualche frutto.
Sto poi trasformando un’associazione che è qui detta del Cuore di Gesù e che conta trecento membri. All’inizio delle pratiche religiose vorrei aggiungere il tentativo dell’organizzazione sociale, dividendo per classi e possibilmente per arti i diversi membri, formando diversi gruppi omogenei e distinti e agendo su ciascuno e per ciascuno moralmente ed economicamente.
Poiché l’associazione conta molte donne-, che spesso son costrette ad abbandonare la patria in cerca di lavoro-, pregherei la Signora Maria44 d’indirizzarmi per potere gettar le basi dell’Opera della Protezione della giovane. Ho il difetto gravissimo di metter sempre molta roba a cuocere, e così avviene che non so condurre nulla a compimento perfetto. So che il Rettore del Seminario s’è diretto a lei per avere schiarimenti sul Segretariato del popolo, già sorto ma avviato maluccio perché si son fatte una quantità di sezioni, ma sono state affidate a persone poco volenterose e poco attive, e-, quel ch’è peggio-, cattoliche più di nome che di fatto.
I paesi qui d’intorno sono stati afflitti terribilmente dal colera, Piedimonte però è restato immune in grazia delle cure profilattiche prese. Il nostro Circolo ha fatto tenere una conferenza popolare sul colera e la sua profilassi, ha fatto spargere i foglietti volanti dell’Unione popolare e s’è offerto, in caso di bisogno, per prestar soccorso e assistenza ai colerosi.
Per turno, i giovani del Circolo hanno vigilato la casa dei sospetti e dei contumaci, mostrando una buona volontà di adoperarsi a pro’ del bene e di esporsi anche di più se ce ne fosse stato bisogno. Come vede, siamo molto lontani da Verbicaro45 e sebbene meridionali, non si è meridionali allo stesso modo.
Per quanto si dica e si faccia, non si riesce però a sradicare dall’anima del popolino la credenza ferma che il colera sia voluto dal governo per diminuire la popolazione. Si ha orrore del medico, e quando proprio non se ne può fare a meno, si sente dire: Signor Dottore, non mi ammazzi; pensi che io son padre di famiglia, pensi che ho dei bimbi da campare. Anche lei è padre, non mi ammazzi! E quelli che guariscono, dicono d’esser guariti perché non hanno preso certe polveri venefiche, che il medico voleva loro somministrare; e quelli che muoiono, muoiono ammazzati e il medico che li ha curati è segnato e fuggito da tutti come un assassino.
Tale il popolino-, ripeto-, che però, un po’ a buona voglia un po’ a forza, sottostà alle misure igieniche.
Auguri alla Signora Maria, ossequi a lei e a tutti di casa.
Devotissimo e Obbedientissimo
Sacerdote Giacomo Vitale.
1912
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo, Piedimonte d’Alife, 17 marzo 1912
BAV, CGT, cartella 36 (6166- 6186), lettera 6170, anno 1912, marzo
Don Giacomo illustra prima un quadro della vita dell’associazionismo cattolico piedimontese, poi svolge delle riflessioni sulla colonizzazione italiana in Libia.
Gentilissimo Signor Professore,
Sebbene le scrivo pel suo onomastico, pure lei certamente non crederà ch’io abbia avuto bisogno della bella ricorrenza per ricordarmi di lei. Se non le scrivo più spesso è un po’ per una certa vergogna, un po’ perché so quanto sia prezioso il suo tempo e ho rimorso di fargliene perdere. Spero stia bene coi suoi, che ossequio. Io non posso lagnarmi della salute. Aspetto il Vescovo46 nuovo che deve venire tra poco, con poca fiducia e con poca speranza: è vecchio, nobile e meridionale, tre qualità che mi lasciano sospettare niente di bene. Dio voglia che m’inganni!
Avevo iniziate le riunioni mensili dell’Unione Popolare, con qualche frutto, ma ho dovuto smettere perché il Vicario episcopale ha sospettati non so quali abissi di spirito d’indipendenza nella mia asserzione (che nelle riunioni mensili dell’Unione popolare non è necessario l’assistente ecclesiastico) per la semplice ragione che l’incaricato locale è sempre una persona di fiducia dell’autorità e-, quindi, in certo modo-, un rappresentante dell’autorità.
Ho sottoposta la quistione a Firenze, e il Prof. Giuseppe Rosselli, pur rispondendo in modo evasivo, mi ha dato ragione. Ho studiata la quistione di Tripoli47, e vo facendo una serie di conferenze al Circolo giovanile sull’argomento d’attualità. Mi sono occupato, a preferenza, delle illusioni economiche che i più nutrono sulla potenzialità della nuova colonia; ho studiate le conseguenze possibili per l’Italia meridionale, paese agricolo che ha tutto da temere dalla nuova colonia la quale-, domani-, potrebbe farsi produttrice ed esportatrice di prodotti in concorrenza a noi.
Ho combattuta l’illusione di una Tripolitania che possa divenire colonia di popolamento-, assorbendo la forte emigrazione meridionale-, perché la nuova terra richiede capitali e iniziative e conoscenze tecniche che mancano ai nostri emigranti, i quali son soliti portare con sé nessun altro patrimonio all’infuori di quello di due solide braccia. Quando pubblica gli altri volumi del suo Corso d’Economia? Le auguro ogni bene, a lei e alla sua famiglia.
Mi creda sempre di lei devotissimo e obbedientissimo
Sacerdote Giacomo Vitale
Piedimonte d’Alife, 17 Marzo 1912
1913
Don Giacomo Vitale a Giuseppe Toniolo, Piedimonte d’Alife, dicembre 1913
BAV, CGT, cartella 37 (6438- 6474), lettera 6472, anno 1913, 16- 31 dicembre48
Informazioni sull’associazionismo cattolico a Piedimonte.
Illustrissimo Signor Professore,
Non so, se, dopo tanto tempo, si ricorderà più di me. Io non dimentico-, però-, la sua scuola e la sua casa. Se io avessi saputo a tempo, se non fossi così segregato-, come sono-, avrei partecipato in qualche modo ai festeggiamenti pel trentesimo anno del suo insegnamento, avrei collaborato a qualche pubblicazione in suo onore. Lei non per questo non accetterà i miei auguri sinceri e affettuosi. Mi occupo sempre d’azione cattolica. È stato qui Pasquinelli49, ha fatto del bene; è venuta anche la Giustiniani50 e ha inaugurata una sezione dell’Unione tra le donne cattoliche. Coi miei amici abbiamo inaugurata, il giorno di Natale, una lega di contadini, sulla quale però non mi fo molte illusioni.
In unione con una Diocesi vicina abbiamo fondato un giornaletto quindicinale, Il Lavoratore, che ha poca diffusione e poca unità d’idee direttive. Come vede, anche da noi qualche cosa si fa, e-, quello che è più-, in tutti va diffondendosi il bisogno e il desiderio di fare sempre meglio e dell’altro.
Ossequi e auguri ai suoi.
Poi creda sempre con la stessa stima e lo stesso affetto,
Suo affezionatissimo discepolo
Sacerdote Giacomo Vitale
Piedimonte d’Alife, Caserta
Appendice
Articolo di don Giacomo Vitale, edito in Rivista internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, gennaio 1910, volume 52, fascicolo 205
A proposito del libro “Il Divino Artista”, di Luisa Anzoletti
La osservazione della splendida fioritura dell’arte nel Medio Evo, porta l’autrice-, ben nota per i molteplici suoi studi filosofici, sociali e letterari-, a rilevare tutto il contrasto di quella coll’arte moderna e domandarsi il perché di tale deficienza. E la causa della degenerazione ella rinviene in alcune condizioni negative dottrinali e storiche, e soprattutto nella mancanza di un’alta e sentita ispirazione religiosa nei tempi nostri. Esaminando poi la genesi dell’opera d’arte nel genio, trova una conferma alla sua tesi nelle analogie innegabili d’ordine storico morale, pratico, che corrono fra il fatto religioso e il fatto artistico.
Invero, il libro è tutto un inno, tutto un anelito alla palingenesi dell’arte, è tutta un’invocazione a Colui che, con tanto amore, creò il mondo delle forme, al Divino Artista che, operando la rinnovazione civile più grandiosa e bella-, onde tutta si nobilita la storia del genere umano-, ha per il primo insegnato come ogni vero rinascimento, e perciò anche quello dell’arte, deve cominciare da un celeste natale dell’anima” (pagina 89). Poiché (e tutto il libro dell’Anzoletti ne è la dimostrazione) non ostante il tentativo di chi ha voluto cacciar l’arte giù, tra le forme dell’attività meno nobile e meno degna dell’uomo, non ostante le negazioni di quanti hanno voluto indurla a un fatto esclusivamente fisiologico, a un mero meccanismo, l’arte è-, e rimane-, una delle attività superiori dell’anima.
Storicamente è la prima affermazione dello spirito, è il primo raggio dell’attività umana che illumina la notte dei tempi. Se l’arte non esistesse, noi non sapremmo nulla del primo apparire dell’uomo, e le tenebre della preistoria sarebbero più fitte, e tutto quel mondo meraviglioso che gli ultimi scavi ci vanno rivelando, tutti i tesori della civiltà preellenica sarebbero per noi come se non fossero mai stati. L’arte, e solo l’arte è la voce del passato: l’anima umana non si è rivelata da prima e per lungo tempo se non esprimendo le impressioni vive e potenti che provava di fronte alla natura o al mistero, fissando sugli scudi, sulle tombe, sulle pareti delle caverne le sue gioie, le sue paure, le sue sorprese, i suoi caldi entusiasmi; l’opera di riflessione, d’investigazione, di scienza è molto posteriore, è frutto dell’umanità adulta.
L’arte, espressione d’impressioni, è l’attività propria di quell’età che-, nell’individuo come nell’umanità-, vive, più che d’altro, d’impressioni: la fanciullezza, e la verginità dell’impressione, propria del bambino, a cui tutte le cose producono un senso di meraviglia, resta poi sempre la dote necessaria e indispensabile ad ogni anima di artista.
Ma tra le infinite cose che nel mondo sono suscitatrici d’impressioni e perciò stimoli all’arte, ve ne sono di quelle che, per produrre il loro effetto, richiedono alcune determinate circostanze di tempo, alcune condizioni di cultura e che, perciò, parlano ai pochi, ai soli iniziati, e ve ne sono di quelle che hanno un linguaggio d’immediata intelligenza accessibile-, perciò-, all’anima di tutti; vi sono delle armonie che echeggiano in un dato clima storico e poi svaniscono, e delle armonie che sin dal principio del mondo hanno avuto ed hanno delle risonanze in tutti i tempi e in tutti i popoli, perché rispondono alle esigenze più alte dell’anima, perché toccano le corde più intime del cuore, di ogni cuore.
Il mistero, il di là: ecco delle realtà dinanzi a cui non può rimanere indifferente sebbene diversamente, né il selvaggio, né il pensatore; l’espressione del senso di turbamento o di serenità, di paura, o di confidenza dinanzi all’ignoto, di fronte alle tenebre che ci circondano e che la religione squarcia con un fascio di luce: ecco un fatto perenne della storia della civiltà.
Per questo la religione – esigenza universale dello spirito, il primo e il più alto sentimento dell’umanità – appare sull’orizzonte della storia insieme con l’arte, e le prime, anzi le uniche manifestazioni dell’arte, dei popoli primitivi, sono religiose ed esclusivamente religiose.
Solo dopo, col volger dei tempi, l’arte diviene man mano espressione di tutti i sentimenti, di tutte le aspirazioni, di tutti i moti dello spirito, ma prima e per molto tempo, l’unica e la sola forma di arte è quella propriamente religiosa. L’arte nasce con la religione e serba poi con essa, sempre, analogie storiche strettissime, rapporti imprescindibili; con la religione muove i primi passi, cresce, tocca i più alti fastigi; quando la religione si trasforma, l’arte assume forme nuove, dove la religione langue o si perverte, anche l’arte langue e decade, se la religione vacilla e si spegne, l’arte non vive o vive d’una vita misera e stenta.
Vi è una religione che india le forze della natura? E sorge un’arte prettamente naturalistica come la greca; brilla una religione nuova di spirito e verità? E dalle tenebre delle catacombe insieme con la fede nuova spicca le ali al volo, nella luce, per i cieli immensi, compagna indivisibile, un’arte nuova. Vi è un’epoca che abbia un’anima veramente religiosa? E sorge come per incanto un popolo di artisti che crea edifizi e tele, e statue meravigliose; manca l’anima? E vengono su gli edifizi- caserme e lo stile Liberty.
Ora, perché questo vincolo cosi stretto, perenne, innegabile tra religione ed arte? Perché la vita dell’una è vita dell’altra, e per tanto tempo-, e per molti ancora oggidì-, la manifestazione dell’una è anche manifestazione dell’altra? Certo, se è vero che l’anima umana è naturalmente religiosa, allora naturalmente religiosi sono tutti i suoi moti, tutte le sue aspirazioni, tutte le sue attività.
Anche senza volerlo, appunto perché naturalmente, ogni atto umano racchiude in sé qualcosa che non finisce, non si esaurisce, ma va al di là dell’atto stesso; ogni gesto assume un che di ieratico e solenne, da ogni fatto sprizza fuori un simbolo.
Se l’anima è essenzialmente religiosa, l’arte-, intuizione prima dell’anima-, è allora figlia prima della religione, e perciò gli esteti quando fanno dell’arte una religione, mentre da una parte ne riconoscono l’aspetto più nobile, compiono poi, con l’esagerarlo, un’inversione e un capovolgimento; e se [l'arte è] figlia della religione, allora per sollevarla dalla miseria in cui è caduta, bisogna infonderle un’anima e un’anima religiosa. La conoscenza di tutti i lenocini della forma, la sapienza di tutti i misteri della tecnica non bastano a darci l’arte. “L’analisi sperimentale" – nota l’Anzoletti – "ha sviscerato tutti i segreti della forma; le teorie naturalistiche hanno fornito i modelli e le regole per produrre il capolavoro esteticamente perfetto”, ma l’anima manca e il capolavoro non l’abbiamo. Sicché l’autrice proseguendo la diagnosi dei tempi presenti, esce felicemente in queste proposizioni. Oggi “noi sappiamo con precisione di quali e quanti elementi storici, psicologici, fisici, sociali, si compone l’arte; e si è pur riusciti a stabilire una definizione di ciò che non fu mai, né può essere definito: la bellezza ed il genio. Una cosa sola nessuno ancora seppe rivelarci: la fonte dell’ispirazione. Una sola pratica scientifica ci manca tuttavia; quella di poter far sì che la bellezza viva” (pagina 57).
“Né la critica" – osserva in altro luogo, (pagine 128- 129), l’illustre scrittrice-, "anche illuminata dai più nobili ideali e ricca di tutte le norme e le esperienze tesoreggiate nelle più splendide età per una pratica perfetta, può, da sola, rigenerare, nella nostra arte materializzata, lo spirito; perché essa, come la grammatica rispetto ai rinascimenti della letteratura, non può precedere e non ha mai preceduto la genesi intuitiva fantastica e poetica, le invenzioni e le opere dell’ingegno originale e autodidatta: quei primi esemplari dell’espressione spontanea e autonoma, ai quali la scienza estetica appoggia le sue teorie, i suoi sistemi ed i suoi metodi. La critica, per potersi esercitare, deve trovar già cresciuto nella terra dell’arte il fiore immortale; seminarlo e farlo crescere per pura virtù propria, non può”. Oggi l’arte è ammalata, perché è ammalata l’anima, quello che urge dunque è l’infusione di una nuova linfa, di una nuova energia, di una nuova vita.“Le grandi restaurazioni dell’arte ebbero sempre origine da un profondo moto di vita interiore”(pagina 215).
Per questo, con un augurio-, con l’augurio fervido che l’invocato rinnovamento per opera del Cristo venga e rinnovi il mondo interiore e ravvivi l’anima umana in tutte le sue manifestazioni-, mi piace chiudere queste riflessioni sgorgate dalla meditazione attenta del libro dell’Anzoletti.
Giacomo Vitali51
Dispensa sul decreto “Docente Apostolo” per i sacerdoti Don Giacomo Vitale e Don Vincenzo Mezzullo (2 maggio 1912)
AAV, Congregationes Concistoriales, Positiones, Alife I, prot. 819/1252
[foglio 1]
Curia Vescovile Alifana, 2 maggio 1912
Beatissimo Padre,
Il Sacerdote Giacomo Vitale, della Diocesi di Alife, prostrato al Trono della Santità Vostra espone umilmente quanto appresso: //Incaricato da Monsignor Settimio Caracciolo, Vescovo Amministratore Apostolico di questa Diocesi, ha costituita nel Comune di S. Gregorio d’Alife una Cassa Rurale Cattolica, di cui è risultato eletto presidente, e vicepresidente un altro sacerdote, l’Arciprete del paese, Vincenzo Mezzullo. Almeno per qualche tempo vi è assoluto bisogno, per lo meno, del postulante nel Consiglio d’amministrazione per dare alla Cassa un carattere prettamente cattolico, e per insegnare agli ascritti-, che son contadini-, le norme direttive per il buono andamento dell’istituzione.
Che della grazia ecc.
Piedimonte d’Alife, 2 Maggio 1912
Si raccomanda vivamente l’istanza perché del tutto conforme al vero,
Il Delegato Generale, Domenico Arcidiacono Macchiarelli
Curia Vescovile Alifana
[foglio 2]
[Diocesi di Alife]
Cassa Rurale Cattolica in S. Gregorio, dispensa sul Decreto “Docente Apostolo” pei sacerdoti G. Vitale e V. Mezzullo.
819/12
8° mensis Maii, anni 1912.
Proprogata ad annum cum taxa quinque libellarum
Dispensa sul decreto “Docente Apostolo” per i sacerdoti Don Giacomo Vitale e Don Luigi Della Paolera (10 aprile 1918)
AAV, Congregationes Concistoriales, Positiones, Alife I, prot. 407/18
[foglio 1]
Curia Vescovile Alifana, 10 Aprile 1918
[Diocesi di] Alife, Per dispensa “Docente Apostolo”, 407/18.
[foglio 2]
Beatissimo Padre,
I sottoscritti, prostrati al bacio del Sacro Piede, chiedono la facoltà di accettare l’incarico di Consigliere l’uno, di Sindaco l’altro della locale Banca Cooperativa del Matese.
Tanto sperano e l’hanno in grazia
Piedimonte d’Alife 10 aprile 1918
Canonico Luigi della Paolera e Canonico Giacomo Vitale
Suprascriptos oratores enim commendamus pro gratia; cum summopere intersit ut in his luctuosis temporibus fraudis, doli et poeculatus, poecunia publica administretur ad normam timoris Dei, iustitiae et fidelitatis. Pedemontii ab Aliphis ex Episcopali Curia Aliphana, die 23° Aprilis 1918
[Traduzione: I soprascritti postulanti dunque raccomandiamo per la benevolenza; sebbene si sia in questi luttuosi tempi di frode, di dolo e peculato, il pubblico denaro sia amministrato con la massima cura secondo il criterio del timore di Dio, della giustizia e della fedeltà. Piedimonte d’Alife, dalla Curia Episcopale Alifana, 23 aprile 1918. Felice del Sordo, vescovo alifano].
[timbro:] Felix del Sordo Episcopus Aliphanus
Felice Episcopus Aliphanus
[foglio 3]
Sacra Congregatio Consistorialis
Locus: Alife
Res: Per dispensa “Docente Apostolo”
Num. Prot. 407/ 18
21 Aprile 1918. Prorogatur ad annum cum taxa libellarum quinque.
[Traduzione: Si proroga di un anno con una tassa di cinque lire]
Pagato il 29 Aprile 1918.
Riferimenti bibliografici
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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]
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