a cura di Armando Pepe
Pagina principale di riferimento: Le relazioni ad limina dei vescovi della diocesi di Alife
Sommario
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Sigle ed abbreviazioni
ASV = Archivum Secretum Vaticanum, Città del Vaticano
AdL = Archivio de Lazara, Comune di Lendinara (Rovigo)
ASDMonreale = Archivio Storico Diocesano di Monreale
ASDPa = Archivio Storico Diocesano di Palermo
AGOC = Archivum Generale Ordinis Carmelitarum (Roma)
b. = busta
fasc. = fascicolo
f. = foglio
ff. = fogli
r. = recto
v. = verso
La diocesi
L’applicazione del Concilio di Trento in diocesi di Alife (suffraganea della metropolìa beneventana) dal XVI al XVIII secolo fu perseguita a ritmi serrati, in modo che tutto rientrasse nel canone di un cattolicesimo emendato da desuetudini e incardinato in stringenti moduli liturgici e organizzativi. Gli esiti della Controriforma possono essere sintetizzati in pochi e determinati concetti-chiave: «Formazione teologica e canonica del clero attraverso i Seminari, visite pastorali, sinodi diocesani, concili provinciali: questi furono i principali strumenti attraverso cui si estrinsecò l’opera di riforma religiosa e disciplinare dei prelati tridentini e post- tridentini» (Barra, p. 73). Solamente un clero più istruito e capace avrebbe potuto giovare alla Chiesa e pertanto era opportuno scegliere vescovi «Degni e coscienziosi, nati da legittimo matrimonio, di buoni costumi e di sana dottrina» (Delumeau, p. 50). I vescovi dovevano adempiere ai propri doveri, primo tra tutti quello della residenzialità, e governare sacerdoti di varia natura, obbedienti o riottosi. L’accoglimento dei decreti conciliari si formalizzava nell’annuale convocazione di un sinodo diocesano, nel compimento di periodiche visite pastorali (per correggere le anomalie e gli abusi) e soprattutto nella creazione di un seminario per la formazione di un corpo sacerdotale che potesse rispondere consapevolmente alle esigenze parrocchiali. Per rimodulare la fede erano previste anche delle missioni con predicatori itineranti che giravano per parrocchie e villaggi portando la parola di Dio. Sul tema della predicazione, collocata al centro dell’azione educativa e pastorale, si può convenire con Marc Fumaroli laddove afferma che: «L’Italia tridentina è stata davvero teatro di una rinascita cattolica del Verbo. Questa rinascita ha coniugato, in un sapiente metodo di insegnamento e in una brillante omiliteca, l’eredità retorica dell’antichità pagana e quella dell’antichità cristiana» (Fumaroli, p. 563), sebbene altre ricerche segnalino le difficoltà e le contraddizioni della predicazione. Le visite pastorali avevano per lo più lo stesso schema delle relazioni ad limina; erano scandite in determinati nuclei tematici, in cui erano compiutamente descritti i luoghi di culto (partendo dalla cattedrale), il clero (parroci e cappellani), le confraternite laicali, la pratica religiosa, lo stato temporale, gli istituti di vita consacrata (monasteri e conventi), la società e lo stato spirituale e morale (fede e costumi) della diocesi. La consuetudine di visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma diventò: «Un’ulteriore occasione di rafforzamento del controllo romano sull’operato dei vescovi» (Potestà- Vian, p. 375). In diocesi di Alife, per ragioni economiche (data la povertà della mensa episcopale) il seminario fu istituito a Castello soltanto nel 1651, per via di un generoso lascito testamentario di Gabriele di Giannantonio, parroco nella chiesa romana di Santa Maria in Monterone. È da notare che, insieme allo Studio domenicano, in Piedimonte il seminario diocesano si poneva come luogo di formazione intellettuale per un territorio che non aveva altre istituzioni culturali di una certa consistenza. È da considerare altresì che i seminari diocesani, in una società immobile e che non favoriva minimamente i passaggi di classe, furono dei formidabili ascensori sociali, particolarmente nelle zone periferiche d’Italia ma anche degli altri paesi esteri. La presenza di insegnanti di grammatica, di logica, di disegno e di canto gregoriano arricchì il contesto civile e sociale, apportando nuovi stimoli e non secondari. La vita religiosa aveva come fulcro la residenza vescovile (a Piedimonte, a causa del paludismo malarico che affliggeva Alife) ed era rafforzata da una densa geografia conventuale, con la presenza di vari ordini, quali Domenicani, Cappuccini, Carmelitani, Alcantarini, Celestini, Agostiniani Scalzi, Francescani dell’Osservanza e Chierici Regolari Minori. C’erano pure due monasteri di suore benedettine, di cui uno nel quartiere di Vallata e l’altro nel borgo originario di Piedimonte. L’effettivo radicamento dei religiosi nel territorio, accentuatosi nella Controriforma, si ricava manifestamente dalla consistenza dei beni di proprietà conventuale. Ai conventi appartenevano molti terreni ed ai religiosi si dovevano compensi per le messe di suffragio. Ad esempio, dalla «Nota degli obblighi di messe nella chiesa del convento del Carmine di Piedimonte a die fundationis fino all’anno 1661» apprendiamo che «Per il quondam Eccellentissimo Signor Duca Francesco Caetano, padrone di Pidimonte, una messa il giorno, per la quale se ne ricevono ducati quarantacinque l’anno. Per il quondam Fra Pietro Jacobutio Cavalier di San Lazzaro una messa il giorno; questi lasciò erede il Convento di tutti i suoi beni mobili e stabili per una rendita di annui ducati venti. Per il quondam Bartolo Valente una messa la settimana, per la quale se ne ricevono annui ducati quattro. Per il quondam Signor Don Luigi Caetano una messa la settimana; se ne ricevono annui ducati otto. Per li confrati della Compagnia di San Sebastiano una messa la settimana; se ne ricevono annui ducati sei. Per il quondam Giovanni Ferrante una messa la settimana; se ne ricevono ducati quattro e mezzo l’anno. Vi sono alcune altre poche messe d’obbligo, che hanno rendita sufficiente. AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)». Secondo un’osservazione dell’arcivescovo di Salerno Nicola Monterisi, nel Regno napoletano: «Vigeva il sistema delle chiese ricettizie con alcune notevoli caratteristiche, le quali ci hanno nociuto moltissimo. La cura delle anime era tenuta dal clero ricettizio con a capo l’arciprete-parroco. A cotesto clero potevano appartenere solo i nativi del luogo, con esclusione del forestiero. I beni erano amministrati in massa comune» (Monterisi, pp. 493-494). Nonostante il punto di vista dell’esimio prelato sia stato fatto proprio da Gabriele De Rosa, che definì la parrocchia ricettizia quale: «Dramma della chiesa nel Mezzogiorno nell’età moderna» (De Rosa, p. 22), si può sommessamente, ma con ragione, sostenere che è stata sopravvalutata in chiave negativa la figura del clero partecipante (o porzionario), afferente alla chiesa ricettizia, rispetto alla reale incidenza nella struttura ecclesiale. Posto che erano ricettizie alcune chiese diocesane, la loro natura giuridica era volta a mantenerne intatto il patrimonio in modo che fresca e continua linfa sostenesse il clero, certamente non benestante, come emerge dalle considerazioni dei presuli alifani. La consistenza patrimoniale delle chiese ricettizie confluiva pure nell’attività caritativa praticata sul territorio, in particolar modo per alleviare le sofferenze dei ceti più deboli. Un altro aspetto da non sottovalutare è la capillare estensione del mondo confraternale nel perimetro diocesano. Un universo, quello delle confraternite laicali, molto composito e non di rado fertile terreno di annose liti. Scendendo nel particolare, durante il mese di settembre 1723 il presule alifano Angelo Maria Porfiri scrisse alla Congregazione dei Vescovi e Regolari :«Eminentissimi e Reverendissimi Signori Padroni colendissimi. Per augumento del culto divino e della Beata Vergine del Carmine l’anno 1700 fu eretta in questa Terra di Piedimonte una confraternita laicale, con le regole firmate dal Provinciale e Priore del convento, e con l’approvazione del Vescovo di quel tempo [Giuseppe de Lazara] acciò li Fratelli avessero associata la statua di detta Beata Vergine nelle processioni solite farsi dalli Padri del Carmine in detto luogo, siccome nel medesimo anno e sino al presente sempre hanno praticato nel modo e forma descritti nell’attestato di questo pubblico processo, copia di cui rimetto alle Eminenze Vostre; ciò consta anche dalle confessioni giudiciali di detti Padri Carmelitani, che mai hanno posto in controversia simile consuetudine. Nel presente anno, però, contro lo stile di ventitrè anni addietro, li detti Padri han preteso di levare il luogo alli medesimi Fratelli in associare, e servire, la detta statua; e di fatto, a tale effetto, han cessato di fare detta processione, tanto nel giorno 16 luglio, giorno di festa della Beata Vergine del Carmine, quanto nella quarta settimana del mese [di luglio], per il che, introdotta la causa servatis servandis avanti di me ad istanza di detti Padri, dopo qualche contrasto, sentite ambe le parti, tanto in voce quanto in scriptis, come consta dal processo esistente in questa Curia, fui di sentimento di dare a detti Fratelli la manutenzione nel possesso [della statua], che hanno avuto sino al presente dal giorno della suddetta fondazione, come dal Decreto interlocutorio, dato li 3 del corrente mese [di luglio]. Dopo aver fatto detto Decreto a favore dei suddetti Fratelli, mi venne presentata da parte di essi Padri una lettera delle Eminenze Vostre, [scritta] in data delli 23 luglio, dove si degnano ordinarmi che debba informarle sopra l’esposto nel Memoriale, che rimetto; onde, umilmente, devo rappresentare che la manutenzione suddetta fu da me conceduta stante il possesso sempre avuto da detti Fratelli; il quale possesso né mai fu interrotto o controverso, seguitando io la dottrina del Fagnani, tanto maggiormente che la disputa non è stata mai sopra la precedenza, ma solamente sopra l’atto reverenziale, et ossequioso, usato da detti Fratelli in servire, et accompagnare, detta statua, e non già mai in vigore della suddetta precedenza, che non si è pretesa, né si pretende da detti Fratelli, et in tali termini corrono le dottrine del cardinal [Giovanni Battista] de Luca, come anche cade a proposito la Costituzione della santa memoria di papa Gregorio XIII [Ugo Boncompagni]. Rassegando la mia umilissima servitù faccio profondissima riverenza. Piedimonte d’Alife, 11 settembre 1723. Umilissimo Angelo Maria, Vescovo di Alife.. AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)». Confrontando queste evidenze con uno status quaestionis che abbracci l’intero Mezzogiorno emergono molti casi analoghi, cioè scontri all’interno del clero o tra religiosi e confraternite laicali. Sempre riguardo al medesimo episodio, in una seconda lettera alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, il presule fu più prodigo di particolari: «Eminentissimi e Reverendissimi Signori Padroni colendissimi. Dovendosi nella chiesa di Santa Maria del Carmine, in questa Terra di Piedimonte, fare secondo il solito dalli Padri Religiosi [Carmelitani] la processione li 16 luglio prossimo passato, et essendosi radunato il popolo in chiesa per tale effetto, per alcune vane et insussistenti pretensioni di essi Padri restò la detta processione impedita; onde, lamentandosi uno dei Fratelli di essa congregazione laicale [confraternita], il Padre Procuratore di esso Carmine ebbe l’ardire d’offenderlo non solo con parole ingiuriose, ma anche con schiaffi, come dal processo che s’invia alle Eminenze Vostre; e benchè l’offesa sia stata fatta nei chiostri di detto convento, ad ogni modo, perché fu pubblica, come in detto processo si rileva, stimo poter procedere in il punire il delinquente, come afferma lo Sperelli in Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari (Roma), decisione 38, n°15, e seguenti. Tuttavia acciò non abbia a nascere controversia con detti Padri intorno alla giurisdizione, ho stimato necessario del seguito darne parte alle Eminenze Vostre, acciò si degnino ordinarmi e prescrivermi il modo col quale dovrò contenermi anche per togliere gli inconvenienti che possano succedere alla giornata, mentre essi Padri, non ostanti le Regole dell’erezione di detta Congregazione, di presente presentemente impediscono a detti Fratelli di fare li soliti esercizi spirituali. Ciò è quanto devo dire alle Eminenze Vostre su questa materia, mentre faccio una profondissima riverenza. Piedimonte d’Alife, 11 settembre 1723. Umilissimo Angelo Maria, Vescovo di Alife. AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)». Nelle relazioni ad limina si può facilmente notare che il patrimonio complessivo delle confraternite laicali era di molto superiore ai proventi della mensa episcopale, per cui ogni presule sistematicamente si lamentava dell’incongruenza economica della diocesi alifana. Di non secondario rilievo è l’immanenza del potere feudale, che spesso entrava prepotentemente finanche nella sfera ecclesiastica. La geografia feudale del territorio diocesano era composita e frammentata, con la presenza di famiglie di primo piano nel quadro globale dell’aristocrazia del Regno di Napoli. Piedimonte, Castello, San Gregorio e San Potito costituivano un unico corpo feudale appartenente ai Gaetani di Laurenzana. Alla stessa famiglia appartenevano pure la contea di Alife, feudo a sé stante, e Gioia Sannitica (per la maggior parte posta nel territorio della diocesi di Telese). Raviscanina e Sant’Angelo (insieme a Pietravairano, sita in diversa diocesi) appartenevano a un marchesato infeudato ai Grimaldi, patrizi genovesi. Ailano era una baronia di proprietà della famiglia napoletana de Penna, mentre il feudo che comprendeva unitamente Prata, Pratella e Valle di Prata (l’attuale Valle Agricola) appartenne, in progressione temporale, rispettivamente alle famiglie Rota, Carafa di Colubrano ed Invitti. Letino, intorno alla metà del XVII secolo, passò dai de Franchis ai Carafa, feudatari di Cerreto Sannita. I momenti più drammatici si vissero nel secondo quarto del XVII secolo, quando il duca Alfonso II Gaetani di Laurenzana tentò di avvelenare il vescovo Girolamo Maria Zambeccari, ma poi, con la scomparsa del feudatario mentre cercava di reprimere la sollevazione della Catalogna, la vita per l’episcopato rientrò nei limiti di un’apparente normalità. Certamente non possono essere giudicati della stessa gravità i contrasti che il marchese Francesco Grimaldi, nella seconda metà del XVII secolo, ebbe con il clero di Sant’Angelo. Il fluire del tempo fu segnato da tragici eventi, battute d’arresto e improvvise riprese. Nel corso del XVII secolo si ebbero due sconvolgimenti epocali, la peste del 1656 (che decimò la popolazione diocesana) narrata estesamente nella relazione ad limina di monsignor Sebastiano Dossena, e il terremoto nel Sannio del 5 giugno 1688, che rase al suolo ciò che restava di Alife. Ricostruita, con notevoli sforzi economici, in pochi anni la cattedrale ritornò ad essere il centro propulsore della cristianità diocesana. Nel 1691, durante l’episcopato di monsignor Giuseppe de Lazara, si finì di costruire una nuova e più capiente sede per il seminario diocesano a Piedimonte nel quartiere di Vallata. Nella cattedrale, alla presenza del vescovo Angelo Maria Porfiri, il 9 aprile 1716 furono rinvenute le ossa di San Sisto I, santo patrono di Alife e dell’intera diocesi (Sasso, pp. 111- 124). Tuttavia, intorno alla metà del XVIII secolo, Piedimonte conobbe una sostenuta ripresa economica e, di conseguenza, civile, segnatamente sotto l’episcopato dei tre Sanseverino. Nonostante che si tratti di un lampante caso di nepotismo episcopale, la loro azione pastorale raggiunse un notevole livello spirituale e culturale.
Prosopografie episcopali
Analizzando le origini dei vescovi alifani dal 1590 al 1659 (Enrico Cini, Modesto Gavazzi, Valerio Seta, Girolamo Maria Zambeccari, Gian Michele De Rossi, Pietro Paolo de’ Medici, Enrico Borghi e Sebastiano Dossena) si può notare che erano quasi tutti dell’Italia centro-settentrionale, ad eccezione dei monsignori Cini (siciliano) e De Rossi (campano), ed erano tutti nobili. Dal 1664 al 1773 si susseguirono dieci vescovi (Domenico Caracciolo, Giuseppe de Lazara, Angelo Maria Porfiri, Gaetano Ivone, Pietro Abbondio Battiloro, Egidio Antonio Isabelli, Carlo Rosati, Innocenzo Sanseverino, Filippo Sanseverino e Francesco Ferdinando Sanseverino), quasi tutti di condizione aristocratica (eccetto monsignor Ivone) e provenienti dall’Italia meridionale, tranne i monsignori de Lazara (nato a Roma da famiglia padovana) e Porfiri (marchigiano). Tra i cardinali che presidevano alla consacrazione episcopale spesso si incontrano i nomi di influenti protettori, cui molto verosimilmente i presuli alifani (come quelli di altre diocesi) dovevano l’avvio della loro mutazione di rango all’interno della Chiesa cattolica.
Monsignor Domenico Caracciolo
Nacque a Gaeta, da nobile famiglia, in data incerta (Jacobellis, n°47). Si laureò in diritto civile e canonico (in utroque iure). Nel mese di gennaio 1659, essendo «Canonico della cattedrale di Gaeta e succollettore degli spogli nella diocesi per la Camera Apostolica, si trovava in lite col vescovo locale, Gabriel Ortiz, il quale, dopo essere entrato in urto col capitolo per questioni legate a processioni, e dopo che la Congregazione dei Vescovi aveva riconosciuto le ragioni del capitolo, si era vendicato scrivendo al nunzio in merito al Caracciolo, che veniva investito da false accuse. Il canonico era stato incarcerato e poi era riuscito a tornare libero grazie all’intervento della Congregazione dei Vescovi; chiedeva inoltre un giusto processo, ma voleva anche accertare se poteva essere considerato immune dalla giurisdizione del vescovo in quanto succollettore» (Menniti Ippolito, p. 158 n; ASV, Congr. Vescovi e Regolari, Positiones Episcoporum, 1659, gennaio- aprile, A-V). Il 13 marzo 1664 fu consacrato vescovo di Alife da papa Alessandro VII (Fabio Chigi). Tuttavia, già pochi mesi dopo l’insediamento in diocesi, l’università di Piedimonte inviò alla Congregazione dei Vescovi due ricorsi contro monsignor Caracciolo, addebitandogli una non comune esosità. Leggiamo infatti che il vescovo di Alife «Il quale ha la residenza nella Terra di Piedimonte, fa macinare quella quantità di grano che vuole senza pagar gabella; egli perciò, abusando di tal facoltà, pretende di vendere a chi gli piace la farina che gli avanza» (ASV, Congr. Vescovi e Regolari, Positiones Episcoporum, 1664, settembre- dicembre, A-V). Per di più, l’università di Piedimonte rilevava che «Per antiche risoluzioni di questa Sacra Congregazione non possono gli Ordinari dei luoghi pigliar danaro (o diritto alcuno) circa la licenza di solennizzare i matrimoni così dei cittadini come dei forestieri, dovendo quella considerarsi gratis. Similmente non possono gli Ordinari applicare ai propri usi le multe, né tampoco quello che proviene dai testamenti d’anima, che si fanno a quei che muoiono intestati, dovendo tutto applicarsi ad usi pii. Ad ogni modo pretende il Vescovo di Alife di esigere una certa somma per le suddette licenze dei matrimoni, di appropriarsi delle multe, e dei beni dei defunti intestati. Perciò la Comunità della Terra di Piedimonte, nella quale il Vescovo ha la sua residenza, supplica umilmente le Eminenze Vostre di ordinargli che nelle cose suddette debba osservare le risoluzioni di questa Sacra Congregazione dei Vescovi» (ASV, Congr. Vescovi e Regolari, Positiones Episcoporum, 1664, settembre- dicembre, A-V). Per converso, da un punto di vista procedurale, fu molto scrupoloso nel far celebrare sempre ogni anno i sinodi diocesani in cattedrale ad Alife (come emerge dalle relazioni ad limina) i cui atti, suddivisi in capitoli, erano conservati nell’archivio vescovile. Nondimeno, la sua azione pastorale, da parte del clero locale, incontrò nette resistenze che presto si trasformarono in aperta ostilità, dato che in una contesa tra le collegiate di Santa Maria Maggiore e di Vallata, monsignor Caraccolo parteggiò per quest’ultima. In effetti, monsignor Caracciolo «Ad onta di vari decreti da Roma, che accordavano la preminenza alla collegiata di Santa Maria Maggiore, pretese con falsi rapporti di favorire la collegiata di Ave Gratia Plena (di Vallata); nonostante che il giorno in cui si celebrava San Marcellino (con replicati decreti della Congregazione dei Riti) fosse stato dichiarato come festa di precetto per Piedimonte e casali, il Vescovo s’impegnò di esentare da quest’obbligo la Vallata e Castello. (Jacobellis, n°47). Il 26 marzo 1665 la Sacra Congregazione dei Riti, con un decreto, ribadì tassativamente a monsignor Caracciolo che «Constat de insignitate Collegiatae Sanctae Mariae Maioris, Terrae Pedemontis, Aliphanae Dioecesis; eique debetur praecedentiam super Collegiatas Sanctissimae Annunciationis de Vallata, et Sanctae Crucis de Castro eiusdem Dioecesis» (Jacobellis, n°47). Molto probabilmente, a causa delle forti incomprensioni con i rappresentati del clero e l’amministrazione civica di Piedimonte, monsignor Caracciolo preferì trasferirsi a Sant’Angelo, da dove governò la diocesi. Nel 1674 il padre provinciale dei frati alcantarini, perorando la costituzione di un nuovo convento in Piedimonte, rammentò a monsignor Caracciolo che: « Il custode provinciale e i definitori dell’ordine di San Pietro d’Alcantara de’ Frati minori scalzi di San Francesco supplicano Vostra Eccellenza di concedere loro il beneplacito per erigere in convento la chiesa di Santa Maria Occorrevole (offerta ai detti Frati dall’Eccellentissimo Signor Duca di Laurenzana e dall’Università di Piedimonte), la quale è di jus patronato di detto Signor Duca e dell’Università. Già si compiacque Vostra Eccellenza Reverendissima di condiscendere all’umile richiesta dei supplicanti, con condizione però che essi presentassero a Vostra Signoria Illustrissima il Breve Apostolico con il quale si concesse ai medesimi la facoltà necessaria per ricevere ed erigere in convento la suddetta chiesa, in modo da adempiere a quanto nel Breve viene ordinato. Perciò, essendosi i supplicanti trasferiti nella Terra di Piedimonte, eseguendo gli ordini di Vostra Signoria Illustrissima, Le presentano il Breve originale di Sua Santità, nel quale si concede ad essi postulatori che possano ricevere un convento in qualsiasi luogo che dai pii fedeli venga loro offerto, con il consenso dei soli Ordinari, e con questa sola restrizione: che nei luoghi in cui vorranno fondare il loro convento non vi sia già un convento dei Frati dell’Osservanza, né di quelli della Riforma della medesima Religione; supplicano dunque Vostra Eccellenza Reverendissima di confermare il già concesso beneplacito et assenso. In effetto, come è noto a Vostra Signoria Illustrissima, in detta Terra di Piedimonte non vi è alcun Monastero o Convento dell’Osservanza, né della Riforma, ma solamente dei Padri Celestini, Carmelitani, Domenicani e Cappuccini, onde pienamente viene adempiuta la detta condizione; né altro resta ai supplicanti di fare che di pregare di nuovo Vostra Signoria Illustrissima per la conferma del beneplacito» (Archivio Storico della Provincia del SS. Cuore di Gesù dei Frati Minori di Napoli, Fondo Alcantarino, b. delle fondazioni e di altro spettante ai conventi, cartella 1 «Piedimonte», fascicolo «Nuovo consenso del Vescovo di Alife dopo aver veduto il Breve di Clemente X, per il quale nella fondazione del Convento di Santa Maria Occorrevole vi erano tutte le condizioni ricercate dal Papa». Il 9 luglio 1674 monsignor Caracciolo diede il proprio assenso per iscritto alla permanenza dei Frati alcantarini in Santa Maria Occorrevole. Negli ultimi tempi si acuirono anche i dissensi con il marchese Francesco Grimaldi, che non gradiva si facessero nuove ordinazioni sacerdotali nel proprio feudo (comprendente Pietravairano, Sant’Angelo e Raviscanina). Come raccontano le cronache, in una notte di metà ottobre monsignor Caracciolo a Sant’Angelo «Trovò una morte disgraziata e violenta; poiché, assalita la sua abitazione e posta a fuoco da malviventi ignoti, fu colpito in fronte da un colpo di fucile» (Jacobellis, n°47). Lo storiografo Niccolò Giorgio aggiunge che: «Non avendo voluto l’infelice Vescovo Caracciolo, che era in opinione di ricco, e danaroso, fare di nottetempo aprire il suo palagio ad una schiera di fuorusciti, fu da quegli scellerati ucciso, e tutto il palagio dato alle fiamme» (Giorgio, p. 183). Tenendo presente che i boschi della pianura alifana non erano immuni dalla presenza di banditi (relazione ad limina del vescovo Pietro Paolo de’ Medici del 1654, cfr. Pepe, p. 115) e che nemici a monsignor Caracciolo di certo non mancavano, riesce tuttora arduo sapere chi effettivamente l’abbia ucciso.
Monsignor Giuseppe de Lazara
Giovanni Battista (detto Giuseppe) de Lazara nacque a Roma nel 1626 da Michele, discendente da una nobile famiglia di origine padovana, e Grazia Lelli. Ebbe otto sorelle e tre fratelli, di cui alcuni si dedicarono alla vita consacrata: Maria Angela e Maria Caterina, monache nel monastero di Sant’Agostino in Roma; Maria Gertruda, carmelitana scalza; Arcangelo, procuratore della Penitenzieria Apostolica; Silvestro (detto Benedetto), carmelitano scalzo. (Cfr. Rassino, p.113). Entrò molto giovane nell’ordine dei Chierici regolari minori, studiò filosofia e teologia, risiedendo stabilmente quasi sempre a Roma, da cui si spostò spesse volte anche a Bologna. Fu a lungo parroco nelle chiese romane dei Santi Vincenzo e Anastasio, in Piazza di Trevi, e di San Lorenzo in Lucina, «ove si mostrò pieno di carità e prudenza» (Cfr. ASV, Dataria Apostolica, Processus Datariae 54, ff. 47r.- 58r.). Tra le altre cose, si dilettò anche negli studi d’astronomia. (AdL, A_5_2_1- fasc. 2 «Bologna, 31 gennaio 1660»). Per comuni interessi di storiografia e genealogia conobbe lo studioso napoletano Carlo de Lellis. (AdL, A_5_2_1- fasc. 2 «Roma, da San Lorenzo in Lucina, 24 aprile 1653»). Per delinearne un quadro più completo ed attendibile si può esaminare la corrispondenza epistolare che Padre Giuseppe intrattenne con Giovanni de Lazara, conte di Palù (ora frazione di Conselve). I due erano parenti, appartenendo il conte Giovanni al ramo principale della famiglia, che aveva sede a Padova. Da Bologna il 22 ottobre 1658 Padre Giuseppe scrisse al conte Giovanni: «Mi dà adito la Sua gentilezza a supplicarla con ogni affetto voglia trovar modo come possa esser raccomandato presso l’Eccellentissimo Signor Francesco Querini Stampalia il Padre Giuseppe Mariconda della mia medesima Religione e mio singolarissimo amico, con cui mi sono impegnato di parola; ed a cui ho altresì significato la protezione che Ella si era degnata intraprendere nel favorir questo negozio, cioè di poter conseguire il Pulpito per la Quadragesima in Santa Maria Formosa di Venezia, non già per quest’anno, in cui il suddetto Padre si ritrova impegnato nel Duomo della città di Urbino, ma quando Le riuscirà più comodo (AdL, A_5_2_1- fasc. 2 secondo, «Bologna, 22 ottobre 1658»). Da Bologna il 24 febbraio 1659 Padre Giuseppe informò il conte Giovanni che: «La mia indisposizione in letto di 35 giorni con dolori eccessivi mi ha sino a questo tempo vietato di scrivere a Vostra Signoria Illustrissima. Giovan Francesco de’ Ritratti [Giovan Francesco de Negri], antiquario famoso di questa città, con il quale da due mesi sono in amicizia, Le invia la qui acclusa nota o discorso, che egli dice Le servirà per porre ordine nel suo gabinetto. Sta egli in letto continuamente con podagra e chiragra, ma sempre applicato alli studi, et è invero persona virtuosissima. Sta egli per stampare gli Annali della Città di Bologna, in dodici tomi in folio; sta solo aspettando il danaro da Sua Santità [Papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi] il quale si è offerto far la spesa; sarà un’opera assai ben accetta. In questa Quadragesima starò predicando nella nostra Chiesa tre giorni la settimana, se però le mie indisposizioni me lo permetteranno; adesso però da alcuni giorni in qua mi sento assai meglio. (AdL, A_5_2_1- fasc. 2 «Bologna, 24 febbraio 1659»). Da Bologna il 10 aprile 1660 Padre Giuseppe scrisse al conte Giovanni: «Intorno al negozio del pulpito per il Padre Mariconda in San Zaccaria, a Venezia, per quello che poi spetta alla patria del detto Padre, egli è nato in Palermo, dove si trattiene la sua famiglia, vivendo da gentiluomini; ché, oltre alla nascita, traendo l’origine dalla città di Napoli, li suoi frutti sono persone virtuosissime e per tali stimate da tutta quella città. (AdL, A_5_2_1- fasc. 2 «Bologna, 10 aprile 1660»). Da Bologna il 17 aprile 1660 Padre Giuseppe informò il conte Giovanni che: «Si è avuta risposta con le prime dal nostro Padre Generale circa il particolare concernente alli favori che Vostra Signoria Illustrissima si studia procurare a me, et insieme al Padre Giuseppe Mariconda; ci si augura che il detto Padre Mariconda non resti l’anno venente senza pulpito di considerazione e, non ottenendo quello di San Zaccaria, almeno possa ritornare a predicare in Roma; di tanto do parte a Vostra Signoria Illustrissima, supplicandola istantaneamente che voglia insistere con la sua autorità per quest’ultima determinazione. Le ricordo la mia devotissima servitù e fo a Vostra Signoria Illustrissima, alla Signora Contessa Donna Leonora Maria e al Signor Conte Nicolò unitamente umilissima riverenza» (AdL, A_5_3_8- fasc. 1 «Bologna, 17 aprile 1660»). Da Bologna il 15 maggio 1660 Padre Giuseppe scrisse con trepidezza al conte Giovanni: «Adesso non lascio di renderle le più vive ed ossequiose grazie per le reiterate diligenze circa il pulpito di San Zaccaria; sebbene vengano al Padre Mariconda fatte istanze da Roma circa la prestezza della risoluzione, nondimeno stimo soverchio il moltiplicare le mie suppliche a Vostra Signoria Illustrissima per ottenerla in qualunque modo che sia» (AdL, A_5_3_8- fasc. 1 «Bologna, 15 maggio 1660»). Da Bologna il 7 settembre 1660 Padre Giuseppe espresse la propria gratitudine, nonostante le sorte avversa, al conte Giovanni: «Per quello che spetta al pulpito per il Padre Mariconda, se bene Ella per sua gentilezza si rammarica della contrarietà delle congiunture, non per tanto non può acchetarsi; poiché nonostante non si sia conseguito il pulpito, Padre Mariconda ed io con i segni più espressivi d’ossequiosa obbligazione non lasciamo di riconoscere quanto Lei si sia impegnato in ciò. Son cose che quotidianamente succedono, né sopraggiungono inaspettate, occupandosi oggidì i pulpiti per anni et anni. Post Scriptum. Appunto adesso ho ricevuto una lettera da monsignor [Girolamo] Boncompagni, arcivescovo di Bologna, il quale mi dichiara suo Esaminatore Sinodale della città di Bologna e sua Diocesi» (AdL, A_5_3_8- fasc. 1 «Bologna, 7 settembre 1660»). Da Roma il 4 marzo 1675 Padre Giuseppe scrisse al conte Giovanni: «Partirono da qui li giorni passati il signor Alessandro [ figlio del conte Giovanni de Lazara] insieme con il signor Prioli, e spero che all’arrivo della prossima settimana saranno giunti in Venezia. Il signor cardinale [Gaspare] Carpegna, Pro-Datario e Vicario di Roma, parente stretto di Sua Santità [Papa Clemente X], mi disse li giorni passati che in un manoscritto haveva letto che Vostra Signoria Illustrissima teneva un nobilissimo studio di medaglie antiche e perché anch’egli se ne diletta, goderebbe di pigliare amistà con Vostra Signoria Illustrissima; il cardinale Carpegna è un signore molto degno e per tutti li capi riguardevole, et in Palazzo puole tutto quello che vuole; e questa è la più bella congiuntura per provvedere il signor Alessandro di qualche Beneficio o Canonicato; il cardinale è un signore generoso e grato e dotto assai, stimando le persone virtuose e la nobiltà dei natali, essendo la famiglia Carpegna nobilissima; anzi, se nello studio fatto da Vostra Signoria Illustrissima, della nostra famiglia, si nominasse qualche memoria della detta famiglia Carpegna, son sicuro che il signor cardinale lo gradirebbe assai. Il detto signore è un mio protettore (per non dir confidente), onde nelle congiunture di qualche importanza La potrei servire di persona» (AdL, A_5_1_4- fasc. 4 «Roma, 4 marzo 1675»). Accennando nuovamente al cardinale Carpegna, l’8 giugno 1675 Padre Giuseppe scrisse al conte Giovanni: « il Cardinale Gaspero di Carpegna è un signore di grandissima capacità, amico buono più di fatti che di parole, disinvolto e di poche cerimonie, ma cordiale; è Datario di Sua Santità e Vicario di Roma, Prefetto delle Congregazioni dei Vescovi e Regolari e dell’Immunità Ecclesiastica; parente del Papa [Clemente X] più stretto che il signor Cardinale Altieri [ Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni]; et ambedue si tengono in stima grande negli affari della Santa Sede più delicati e di maggior confidenza; il signor Cardinale di Carpegna per altro è occupatissimo per tutte le cariche che tiene» (AdL, A_5_2_ 10- fasc. 1 «Roma, 8 giugno 1675»). A Roma il 19 aprile 1676 Padre Giuseppe fu consacrato vescovo di Alife dal cardinale Gaspare Carpegna. Negli atti del processo per la consacrazione episcopale si legge: «Gli anni ai quali può arrivare il Padre de Lazara saranno cinquanta circa, come si riconosce dal suo aspetto. È benissimo esperto nell’esercitare le sacre funzioni. Canta la messa con molta attitudine. È vissuto sempre non solo cattolicamente e nella purità della fede cattolica ma anche esemplarmente nella sua Congregazione. È dotato di ottimi costumi e di buona fama, come ne ha dato buonissimo saggio a chiunque lo abbia praticato. È pieno di gravità e prudenza e assai pratico di maneggi, avendo fatto ottima esperienza nelle cariche che ha esercitato. Ha fatto il corso degli studi di Filosofia e Teologia. Ha tutta la dottrina sufficiente per diventar Vescovo e insegnare agli altri. È stato Superiore in più luoghi della sua Religione, come in Marino e in Urbania; è stato anche più volte Visitatore della Provincia romana del suo Ordine» (Cfr. ASV, Dataria Apostolica, Processus Datariae 54, ff. 47r.- 58r. ). Giunto a Piedimonte «Nel primo anno del suo Vescovado, in data 11 ottobre 1676, pubblicò varie costituzioni, quali confermò poi nel Sinodo diocesano, celebrato il 12 ottobre 1679, nel quale fece molte ordinazioni utilissime ad estirpare gli abusi e provvedere all’onesto contegno degli Ecclesiastici, non che alla retta amministrazione de’ Sacramenti» (Jacobellis, n°48). Il 17 settembre 1677 conferì l’ordinazione sacerdotale al chierico Giovanni Giuseppe della Croce nella chiesa di Santa Maria Maggiore (Jacobellis è discorde, collocandola il 19 luglio 1677, cfr. Jacobellis, n°47). «Sotto il suo governo fu edificata dai Padri Alcantarini la Solitudine nel luogo detto il Muto, in un sito che a prima vista sembra essere stato scelto troppo imprudentemente, val quanto dire sotto un masso di pietra, che minaccia scatenarsi in ogni istante; ma tale scelta avvenne per le fervorose preghiere dei Religiosi, e specialmente di San Giovanni Giuseppe della Croce. Appena compiuta la fabbrica di quell’angusto romitorio, colla sua chiesetta dedicata a Santa Maria degli Angioli, il nostro Monsignor de Lazara volle in persona portarvi il Santissimo Sagramento, e solennemente consegnarla, lo che fu eseguito a dì 2 agosto 1678» (Jacobellis, n°48). Dopo il disastroso terremoto del 5 giugno 1688 «La cattedrale soffrì assai, per cui il nostro buon Vescovo s’impegnò a ripararla per quanto permisero le sue forze e la povertà dei cittadini alifani» (Jacobellis, n° 48). Nel 1691 fece erigere il nuovo seminario a Piedimonte, nel quartiere di Vallata. Nei primi giorni del 1692 ripubblicò il decreto della Sacra Congregazione de’ Riti con cui si deliberava che San Marcellino era protettore non solo di Piedimonte, ma anche di Castello, San Gregorio e Sepicciano (Jacobellis, n°48). Il 23 marzo 1697 eresse in parrocchia la chiesa di San Marcello in Sepicciano, di cui il primo parroco fu Don Giuseppe D’Abbraccio. Dopo circa 27 anni d’episcopato, monsignor de Lazara «fu chiamato dal Signore a dì 2 marzo 1702, in età di anni 75, e fu sepolto nella Chiesa di San Tommaso d’Aquino» in Piedimonte.
Monsignor Angelo Maria Porfiri
Nacque a Camerino intorno al 1650 «Da cattolici e nobili parenti, il signor Venanzio e la signora Cesarea» (ASV, Dataria Apostolica, Processus Datariae 80, ff. 93r- 112v.). Ebbe un fratello, Giovanni Battista. Dal 1667 fu alunno del Collegio Montalto a Bologna, in strada San Mamolo, per studiare giurisprudenza. Fondato da papa Sisto V nel 1586 il Collegio Montalto «era destinato ad ospitare cinquanta scolari provenienti dalle Marche. Al collegio erano stati assegnati i patrimoni del priorato dei frati ospedalieri di Sant’Antonio di Vienna e di numerose altre chiese bolognesi, che garantivano una disponibilità finanziaria imponente. Gli scolari, la cui idoneità agli studi universitari era vagliata attraverso un attento accertamento, dovevano avere già svolto gli studi secondari (corso grammaticale- retorico) ed avere un’età compresa fra i quindici e i diciotto anni. Tutti dovevano svolgere il corso degli studi filosofici e orientarsi successivamente verso quelli di diritto canonico e civile». (archiviostorico/unibo, pp..1-2). Il 19 settembre 1671 conseguì la laurea in utroque iure (diritto civile e canonico) presso l’Università degli studi di Bologna, tenendo una «tersa, luculenta, elegante et erudita oratione» cosicché la commissione «Biretum seu diadema doctorale capite eiusdem Domini Angeli Mariae imposuit» (ASV, Dataria Apostolica, Processus Datariae 80, ff. 93r- 112v.). Fu ordinato prete il 21 marzo 1700. Dagli atti del processo per la nomina episcopale apprendiamo che Angelo Maria «È d’età di cinquantadue anni circa. È sacerdote da tre anni circa. È versato nelle funzioni ecclesiastiche per essere molto dotto, devoto, e frequente nell’esercizio dei Santissimi Sagramenti. Si è conservato nella purità della fede con esempi edificanti e devoti. È anco dotato di viso innocente, di costumi lodevoli e di dolce conversazione. Si comporta come persona dotata di modi gravi e prudenza. Ha abilità pei maneggi, sì come si è riconosciuto dalle cause che gli sono state affidate. Egli è dottore nell’una e nell’altra legge e ne ha preso il grado nell’Università di Bologna. Ha esercitato la procura in Roma per lo spazio di venti anni e poi fu adiutore di monsignor Antonfelice Zondadari [senior], vice-legato in Bologna; nelli quali casi si è portato con integrità, scienza e lode universale. Non ha mai dato alcuno scandalo circa la fede, né ha alcun vizio d’animo o di corpo. È persona molto dotta e capace» (ASV, Dataria Apostolica, Processus Datariae 80, ff. 93r- 112v.).
«Fu eletto vescovo di Alife a dì 5 marzo 1703 dal Pontefice Clemente XI l’anno terzo del suo Pontificato. Fu amantissimo de’ poveri e zelantissimo nell’amministrazione della giustizia e nell’osservanza della Ecclesiastica disciplina; a qual oggetto nel secondo anno del suo Vescovado celebrò un Sinodo nei giorni 21 e 22 di Aprile [1704] , con cui in 45 articoli trattò abbondantissimamente quasi tutta la materia ecclesiastica. Avendo osservato che le case donate dagli Economi di Ave Gratia Plena non avevano forma veruna di Seminario, perché senza cappella, senza officine, e senza comodità veruna, cosicché aveva piuttosto forma di quartiere che di Seminario, nel 1708 coll’aiuto di molte chiese e cappelle di Piedimonte e della Diocesi diede principio ad una nuova fabbrica quasi a fundamentis, la quale fu terminata nel 1710, mediante la spesa di circa ducati 1500. Pensò ancora al necessario mantenimento, e quindi annesse al medesimo Seminario le rendite della Nunziatella a Capo di Vallata, quelle di Santa Maria a Coppolino di Ailano, e Santa Margarita di Letino, come si ricava da un Istrumento de’ 17 gennaio 1716, rogato per mano di notaro Nicola Gambella, nonché [le rendite] del soppresso Convento de’ Cruciferi di Ailano, donato da un certo Luca Di Fiore. Per opera di lui furono aggiunti altri sei Canonici alla Collegiata Ave Gratia Plena colle rendite di due Congregazioni laicali, una sotto il titolo del Santissimo Sacramento, e l’altra sotto quello dell’Annunciata, che esistevano in detta chiesa. Procurò che quest’aggiunzione fosse sanzionata con Breve Pontificio, con cui furono obbligati li Canonici all’officiatura giornaliera, alla messa conventuale, etc. Ciò accadde nel 1719. La cosa però che specialmente rende immortale la memoria di Monsignor Porfirio fu la invenzione [il ritrovamento] del corpo di San Sisto I Papa e Martire. Nel ristorare la Cattedrale dai danni cagionatile dal terremoto del 1688, pensò potersi fare nella crociera della chiesa una nuova cappella corrispondente a quella del Santissimo, e dedicarla a San Sisto, di cui sapevasi essersi ottenuto il corpo dal Conte Rainulfo [Drengot]. La sera dunque delli 8 di Aprile 1716, ch’era Mercoledì Santo, armato di viva fede, verso le ore due della notte [ore 20], accompagnate da poche scelte persone, discese nel Succorpo e, ben sapendo il costume degli antichi cristiani di situare sotto gli altari i corpi dei Santi Martiri, fece abbattere l’altare ed il pavimento contiguo, e dopo molte fatiche si scoperse una buca, donde si sentì uscire un soavissimo odore, e calatavi una candeletta si videro con somma allegrezza e tenerezza di cuore le ossa adorate. Di tutto l’avvenuto si pubblicò un Istrumento per mano del notaro apostolico Don Francesco Vetere. Viveva in questi tempi in Castello Don Nicola Antonio de Baronibus, barone dei feudi denominati San Felice e Civitella, il quale con suo testamento del dì 2 agosto 1711 istituì suoi eredi gli Eremitani di Sant’Agostino, coll’obbligo di edificare un Convento in Castello, e propriamente nel suo palazzo. Il valore dei fondi fu di 17000 ducati, che rendevano annui 753 ducati, oltre il contante, li crediti, il valore de’ mobili, e dei semoventi [pecore], che ascesero a più migliaia. Gli Agostiniani accettarono la donazione e ne furono posti in possesso dal nostro Monsignor Porfirio qual Delegato Commissario della Sacra Congregazione [dei Vescovi e Regolari] a dì 25 settembre 1725.
In quest’anno stesso 1725 si diede principio alla fabbrica della nuova chiesa di Santa Maria Maggiore. A dì 7 aprile 1725 il Vescovo vestito pontificalmente, ed assistito dai Canonici e dal Clero, si portò sopra il luogo, benedisse la prima pietra, ed alla presenza di tutta la Eccellentissima Famiglia Gaetani, e di numeroso popolo, fra le festive acclamazioni, fu posta per primo fondamento della novella chiesa, la quale per altro non fu terminata che dopo il lungo spazio di anni 48 e mesi 4.
Durante il suo governo, per opera delli signori Nicola Gaetani e Donna Aurora Sanseverino, coll’intervento e limosine della popolazione fu edificato un convento in Piedimonte sotto il titolo della Santissima Concezione sopra la chiesuola detta la Madonna della Grazia, alle radici del Monte Cila.
Esso era destinato per li Padri Minimi di San Francesco di Paola; ma non avendo costoro potuto ottenere i mezzi di trasporto de’ cibi quaresimali, di cui solo possono far uso secondo la loro regola, ricusarono la fondazione a loro favore; per lo che ottenne il convento Padre Federico Cozzani de’ Chierici Regolari Minori, a dì 14 maggio 1711, che vi fu tre volte preposito» (Jacobellis, n° 49). Nel 1728 indisse un altro sinodo diocesano. Morì il 23 luglio 1730 a Piedimonte, ove fu sepolto nella collegiata di Ave Gratia Plena.
Monsignor Gaetano Ivone (o Iovone)
Nacque a Felitto (in provincia di Salerno) il 15 ottobre 1669 da famiglia borghese. Fu ordinato prete il 18 aprile 1699. «Era egli nativo della Diocesi di Capaccio, nel Principato Citra; ma Roma però fu il teatro del suo sapere e della sua gloria. In quella capitale del Mondo cattolico fu egli canonico della chiesa di Santa Lucia della Tinta [nel rione di Campo Marzio]; nel qual posto, resosi celebre per la sua dottrina, fu scelto per esaminatore e visitatore apostolico e, per li meriti acquistatisi nel decoroso esercizio di tali cariche, fu dal pontefice Clemente XII [Lorenzo Corsini] eletto Vescovo di Alife il dì 1° gennaio 1731 [consacrato dal cardinale Antonfelice Zondadari senior ]. Fu amante degli uomini dotti e dabbene, onde s’impegnò di aver Vicario Don Pietro Marcellino di Lucia, con cui aveva contratto amicizia in Roma; ma non poté distaccarlo da Roma, dove esercitava con lode la sua professione. Oltre di ciò non troviamo di questo illustre prelato altra notizia se non che essendo andato nella sua patria, nel ritorno che faceva dalla sua casa in Diocesi, morì a Castel San Lorenzo il 31 ottobre 1733» (Jacobellis, n° 50).
Monsignor Pietro Abbondio Battiloro
Nacque in Arpino il 24 novembre 1677 da famiglia nobile, illustre e cospicua, che diede alla Chiesa un altro prelato, l’arcivescovo Tommaso Battiloro. Ordinato sacerdote il 23 aprile 1702, divenne canonico della collegiata arpinate di San Michele e «fu uomo ornatissimo nelle belle lettere e nella giurisprudenza, per cui il 12 giugno 1724 meritò di essere innalzato al Vescovado di Guardialfiera (piccola città nel Contado di Molise), suffraganeo di Benevento, dal pontefice Benedetto XIII [al secolo Pietro Francesco Orsini]» (Jacobellis, n° 51). Fu consacrato dal vescovo di Avellino e Frigento, monsignor Francesco Antonio Fini, (il quale, per gli stretti legami con papa Orsini, ricevette la porpora cardinalizia il 26 gennaio 1728). Monsignor Battiloro «essendo intervenuto al Concilio, indetto dal citato Sommo Pontefice, e celebrato in Benevento, ebbe l’onore di recitarvi una eloquente orazione» ((Jacobellis, n° 51). Il 18 dicembre 1733 fu trasferito nella diocesi di Alife. Morì il 17 ottobre 1735 a Piedimonte, ove fu sepolto nella collegiata dell’Annunziata.
Monsignor Egidio Antonio Isabelli
Nacque il 28 gennaio 1686 «in Potenza, piccola città nella provincia di Basilicata, dalla illustre famiglia Isabelli» (Jacobellis, n° 52). Fu ordinato sacerdote l’8 luglio 1725. «Patrizio Romano per privilegio pontificio, fu egli creato Vescovo di Alife da papa Clemente XII [Lorenzo Corsini] a dì 8 dicembre 1735» (Jacobellis, n° 52). Fu consacrato vescovo dal cardinale Francesco Antonio Fini, con cui intrattenne sporadica corrispondenza. «Nel corso di 17 anni che governò questa Diocesi fece conoscere il suo animo grande e generoso, mentre malgrado che la rendita della Mensa [episcopale] non era molto vistosa, riparò in parte l’Episcopio, costruì dai fondamenti un comodo casamento con Cappella nelle vicinanze di Alife, nel luogo che d’allora in poi si denominò la Fabbrica, ed accrebbe le rendite del Seminario con annettervi tanto quelle del Beneficio de’ Santi Cassiano e Giuliano (eretto dentro la Chiesa Parrocchiale di San Potito) quanto quelle di Sant’Antonio Abate di Valle [di Prata] (ora Valle Agricola), con Decreto de’ 19 maggio 1738. Per i tipi della Reverenda Camera Apostolica nel 1745 diede alle stampe un’epistola pastorale al clero e al popolo alifano (ASV, Fondo Finy 8, f. 178). Non si mostrò meno valente nella sacra erudizione, specialmente allorché si portò a Roma in seguito d’invito generale del Papa, ed intervenne al quarto Concistoro semipubblico, tenuto a dì 13 giugno 1746, l’anno VI del pontificato di Benedetto XIV [Prospero Lorenzo Lambertini], per la canonizzazione di cinque Beati, cioè Giuseppe da Leonessa, Fedele da Sigmaringa, Camillo de Lellis, Pietro Regalado e Caterina de Riccis. Morì questo ottimo Pastore alli 3 di gennaio 1752, dopo aver ricevuto con edificante divozione tutti i Sacramenti per mano del suo confessore Reverendo Sacerdote Don Nicola Gambella; fu sepolto nella collegiata di Ave Gratia Plena» (Jacobellis, n° 52).
Monsignor Carlo Rosati
Nacque il 23 agosto 1706 nella città pugliese di Troia da nobile famiglia. Il 24 settembre 1729 fu ordinato prete e dal 1739 «fu Preposito di Canosa; la quale Prepositura ha giurisdizione quasi Vescovile ed è immediatamente soggetta alla Santa Sede. Quindi fu innalzato al Vescovado di Alife da papa Benedetto XIV [Prospero Lorenzo Lambertini] alli 10 di marzo 1752; ma il suo governo non durò neppure un anno intero, essendo morto alli 17 febbraio dell’anno 1753, in età di anni 47. Il suo corpo fu seppellito [a Piedimonte] nella chiesa dei Domenicani, dentro la Cappella del Santissimo Rosario [di giuspatronato dei Gaetani d’Aragona]» (Jacobellis, n° 53).
Monsignor Innocenzo Sanseverino
Nacque il 5 aprile 1696 a Nocera dei Pagani da famiglia aristocratica. Fu ordinato sacerdote il 7 luglio 1720. «La Eccellentissima Famiglia Sanseverino ha dato successivamente alla Chiesa di Alife tre Vescovi, il primo dei quali fu Monsignor Innocenzo. [Consacrato dal cardinale Joaquín Fernández de Portocarrero Mendoza, il 9 marzo 1746] era egli stato assunto al Vescovado di Montemarano, città popolata nel Principato Ultra, e n’esercitava con decoro le funzioni quando dall’immortale papa Benedetto XIV [Prospero Lorenzo Lambertini] fu traslocato alla Cattedra di Alife [il 12 marzo 1753]. Siccome non mancava di attenzione nel pascere le pecorelle affidate alla di lui cura, così si mostrò ancora sollecito intorno a ciò che appartiene al culto esteriore ed alla istruzione della gioventù. Quindi intraprese la erezione delle tre ali nella Cattedrale di Alife, ed impinguò il Seminario di nuove rendite, annettendo al medesimo, con Decreto in Santa Visita del dì 21 aprile 1756, li seguenti Benefici, cioè (1) quello di Santo Stefano (eretto nella chiesa di Sant’Antonio Abate fuori la Porta di Vallata a Piedimonte), (2) quello di Santa Lucia, di Piedimonte, nel luogo detto Pizzone, (3) quello di Sant’Antonio Abate, in Sant’Angelo, (4) quello di Santo Stefano, in Raviscanina, (5) quello di Santo Spirito, in Castello, (6) quello di Santa Elena, in Prata, (7) quello di Santa Maria del Pozzo, in Valle di Prata, (8) quello di San Biagio, in Letino» (Jacobellis, n° 54). Nonostante alcune incomprensioni avute con il clero piedimontese durante il governo episcopale «non è da negarsi però che fosse un Prelato di somma capacità, per cui dal Vescovado di Alife [il 3 gennaio 1757] fu trasferito all’ [Arcivescovado] di Filadelfia in partibus infidelium, ed in questa nuova dignità fu creato Vicario Generale dell’Arcivescovo di Napoli [Antonino Sersale], e Consigliere del Tribunale Misto; cariche ch’egli sostenne con molto decoro sino alla morte» (Jacobellis, n° 54), che avvenne a Napoli il 10 luglio 1762.
Monsignor Filippo Sanseverino
Nacque il 18 maggio 1711 a Nocera dei Pagani da nobile famiglia. «Fratello germano di monsignor Innocenzo Sanseverino, fu ordinato sacerdote il 4 giugno 1735 (Jacobellis, n° 55)». Il 14 agosto 1745 si laureò in utroque iure (diritto civile e canonico) all’Università di Napoli. Già canonico della cattedrale di Nocera, successivamente fu vicario generale nelle diocesi di Montemarano, Capaccio e Alife, ove era vescovo il fratello. Il 6 gennaio 1757 fu creato vescovo di Alife da papa Benedetto XIV [Prospero Lorenzo Lambertini], venendo consacrato dal cardinale Giorgio Doria. «Non fu egli in questa carica meno operoso di suo fratello, poiché perfezionò nella Cattedrale le tre ali già da quello cominciate; vi fece costruire l’uno e l’altro Coro e l’adornò di pavimento, all’infuori di varie altre riparazioni alle porte, nel battistero e negli altari. Fu altresì attento al benessere e al vantaggio del Seminario; a qual fine nel 1763, con Decreto del 9 ottobre, annesse al medesimo le rendite della chiesa della Santissima Trinità, detta comunemente Santa Lucia a Porta di Vallata, in Piedimonte. Durante il suo governo, e propriamente nel 1764, fu fatta scolpire in Napoli, e quindi trasportata nella collegiata di Ave Gratia Plena, la devotissima statua della Immacolata Concezione di Maria Santissima. Tuttavia non potette la Chiesa di Alife godere per lungo tempo delle benefiche cure di Monsignor Filippo, poiché chiamato alla carica di Vicario Generale dell’Archidiocesi di Napoli (e quindi trasferito all’Arcivescovado di Nicea in partibus infidelium il 29 gennaio 1770) dovette del tutto abbandonare questa Diocesi, la quale non poté non compiacersi nel vederlo innalzato a sì alto posto; in seguito fu eletto dal Re Ferdinando IV di Borbone per proprio Confessore» (Jacobellis, n° 55). Morì a Napoli il 10 settembre 1790.
Monsignor Francesco Ferdinando Sanseverino
Nacque a Maratea il 25 febbraio 1723 da nobile famiglia. Entrato nella congregazione dei Pii Operai, conseguì a Napoli il lettorato in teologia. Ordinato sacerdote il 18 marzo 1747, divenne nel 1750 consultore della Sacra Congregazione dei Riti. «Era nipote delli due precedenti Prelati, ambedue Vescovi di Alife. Dal Pontefice Clemente XIV [Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli] fu eletto al Vescovato di Alife a dì 4 febbraio 1770» (Jacobellis, n° 56). Ricevette la consacrazione episcopale dal porporato Henry Benedict Mary Clement Stuart of York, cardinale vescovo di Ostia (e Velletri). «Si racconta che il Pontefice, nel firmare la Bolla di Francesco Ferdinando, avesse domandato se vi erano in Napoli altri Sanseverino per consacrarli Vescovi di Alife. A Piedimonte il l7 aprile 1773 il nostro Vescovo, vestito pontificalmente ed accompagnato da tutto il clero del Seminario, uscendo da Palazzo Ducale, si portò alla nuova chiesa di Santa Maria Maggiore e solennemente la benedisse a norma del Rituale Romano. Inoltre fu in Diocesi uomo di somma destrezza nel trattare gli affari» (Jacobellis, n° 56). «Dal 1774, per circa un anno e mezzo, monsignor Sanseverino si allontanò dalla Diocesi di Alife per dimorare a Roma, in missione segreta, presso il papa Clemente XIV [Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli]. In accordo con il primo ministro del Regno delle Due Sicilie, Bernardo Tanucci, tentò di ottenere la soppressione dell’arcidiocesi normanna di Monreale affinché le sue forti rendite potessero servire per una flotta che difendesse sia il Regno sia lo Stato Pontificio dalle incursioni dei pirati barbareschi» (Vitale, p. 116). Monsignor Sanseverino riuscì nell’intento poiché le due arcidiocesi, di Palermo e Monreale, il 7 luglio 1775 da papa Pio VI [Giovanni Angelico Braschi] furono accorpate aeque principaliter con il Breve Apostolici suscepti regiminis, « acciocché i proventi della soppressa Mensa arcivescovile di Monreale s’impiegassero per il mantenimento di una flottiglia destinata a custodire i mari siciliani dalle incursioni dei pirati barbareschi» (ASD Monreale, Fondo Governo Ordinario, sez.1, serie 1, b. 1, fasc. 14, 1896). Il 21 marzo 1776 fu promosso arcivescovo delle diocesi di Palermo e Monreale da Papa Pio VI e durante il concistoro diocesano del 15 aprile dello stesso anno fu presentato, con lodi ed elogi, da monsignor Niccolò Ciafaglione, inquisitore del Santo Uffizio nell’isola, a re Ferdinando III di Sicilia (Ferdinando IV come re di Napoli). Poco tempo dopo monsignor Ciafaglione «persona di tanto zelo, prudenza e dottrina» fu incaricato dall’arcivescovo Sanseverino di prendere possesso in sua vece del governo spirituale delle due arcidiocesi e quindi nominato suo vicario generale. (ASDPa, Fondo Gran Corte Arcivescovile, Lettere della Gran Corte Arcivescovile, numero di corda da 798 a 809 (Anni 1776-1794), Lettera dell’arcivescovo Sanseverino a monsignor Ciafaglione, datata «Napoli, 27 aprile 1776»). Il 20 agosto 1776 monsignor Sanseverino scrisse e firmò di suo pugno un provvedimento con cui ordinò a tutti i predicatori della diocesi di Monreale, di ogni ordine e grado, di restituire le patenti «di confessione e facoltà di predicare».» (ASD Monreale, Fondo Governo Ordinario, sez.1, serie 2, b. 4, fasc. 17, Anni 1776-1793). Quelli che non si fossero attenuti alla disposizione sarebbero stati sospesi dalle predette facoltà. Si può plausibilmente ritenere che da parte di monsignor Sanseverino ci fosse l’intenzione di favorire un’ulteriore mossa per la definitiva soppressione dell’arcidiocesi monrealese, con il conseguente incameramento regio di beni e rendite. D’altronde era questo l’originario progetto cui monsignor Sanseverino era stato destinato dal papa e dal sovrano. Durante il suo episcopato, nel 1780 a Monreale fu rifatta la facciata del monastero dei Benedettini. «Scorsi otto anni circa dal suo governo di arcivescovo gli venne dal Sovrano indossata una nuova carica. Era rimasta senza un governante la Sicilia, dietro la partenza del Viceré Don Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina. Sua Maestà non trovò miglior soggetto, per destinarlo al governo di questa isola, che monsignor Sanseverino; lo elesse Presidente del Regno, e Capitano Generale, con suo biglietto del 19 maggio 1784. Governò egli la Sicilia per due anni, e non ostante gli affari, di cui poteva caricarlo il governo di un Regno, non tralasciò nel tempo stesso di attendere al suo governo nelle due diocesi a lui affidate. Distaccatosi dal governo di Sicilia nel 1786, con più agiatezza proseguiva ad occuparsi ed impegnarsi per il bene del suo doppio gregge» (ASD Monreale, Fondo Governo Ordinario, sez.1, serie 1, b. 1, fasc. 13, n° VII). «Molto bene arrecò questo insigne Prelato alla diocesi di Palermo; erogò ogni anno quindicimila scudi in elemosina ai poveri e concorse largamente alla restaurazione del duomo palermitano. Fu anche lui che, a richiesta del rettore Castelli, concesse un’altra volta il palazzo arcivescovile per uso delle scuole del Seminario, facendovi eseguire le opportune modificazioni. Volle che nella scuola si erigesse un altare in onore di San Tommaso d’Aquino. Istituì nella cattedrale di Monreale dei reverendi Vicari di Coro, nel numero di sedici, concedendo loro nello stesso tempo le insegne corali. Era il giorno 31 marzo dell’anno 1793 quando monsignor Sanseverino se ne volò al cielo. Il di lui cadavere fu sepolto nella cattedrale di Palermo» (Brano tratto dal manoscritto inedito «Vite degli Arcivescovi Abati e Signori di Monreale per Don Salvatore Buccola Vicario di Coro della Metropolitana», in ASD Monreale, Fondo Governo Ordinario, sez.1, serie 1, b. 1, fasc. 14, 1896).
Ecdotica
Di monsignor Caracciolo si è conservato soprattutto il ricordo della tragica morte, avvenuta in circostanze misteriose, come in un racconto di tregenda. Del suo episcopato rimangono quattro relazioni lineari, descrittive, senza particolari evenienze da sottolineare, se non il fatto che nel 1673 il presule alifano ebbe dei dissapori con il marchese Francesco Grimaldi, feudatario di Pietravairano, Raviscanina e San’Angelo. Conflitti e aperte inimicizie tuttavia non spiegano per nulla la dipartita terrena di monsignor Caracciolo, anzi l’avvolgono in una più fitta trama di intrighi e palesi ostilità, consumate in un periodo che vedeva il banditismo dilagare in tutta Terra di Lavoro, ove per i reiterati delitti operava il Tribunale di Campagna. Per avere notizie intorno alla morte di monsignor Caracciolo dobbiamo attenerci a quanto ci tramanda Jacobellis, e sottostare a quello che lo scrittore spagnolo Javier Cercas, nel romanzo «L’impostore» definisce «il ricatto del testimone», affidandoci pertanto, fino a prova contraria, ad un’unica fonte.
L’episcopato di monsignor de Lazara durò quasi un quarto di secolo- finendo nel 1700- e fu segnato dal violento terremoto che il 5 giugno 1688 sconvolse il Sannio, vividamente raccontato dall’abate Pompeo Sarnelli «Fatto per lettera missiva dal Sig. Abate Pompeo Sarnelli all’illustrissimo ed eruditissimo Signore, il Signor Antonio Magliabechi, Bibliotecario di S.A.S., Capitolo XXIV» (Sarnelli, pp. 68- 100). Dopo il terremoto, nel convento del Carmine a Piedimonte fu redatta una lunga lista, con i beni, i libri, le terre e gli affittuari. Documento molto interessante, che indica in modo fededegno, e plasticamente, uno spaccato della vita piedimontese e diocesana nel tardo Seicento. Sappiamo così chi a vario titolo donava un obolo, più o meno cospicuo, al convento del Carmine «Stato del Convento di Piedimonte dedotto dall’Anno 1688: Andrea Tartaglia, 2 ducati; Angelo Riccio, 2 carlini; Domenico Gambella, 2 ducati; Agostino di Servedio, 2 ducati; Nicolò e Marcantonio Servedio, 9 ducati; Angelo Capriati, 1 ducato; Alessio Grande, 4 ducati; l’Eccellentissima Signora Donna Aurora Sanseverino, 4 ducati; Beatrice Riccitelli, 3 ducati; Biaso di Mastro Nardo,8 ducati; Banco del Santissimo Salvatore, di Napoli, 6 ducati; Cappella di San Sebastiano, per tante messe annue, 6 ducati; Cappella della Santissima Annunziata, per tante messe annue, 4 ducati; Catarina Occhibove, 2 ducati; Cosmo e Giuseppe Apicio, 4 ducati; Damiano di Michele, 1 ducato; Dianora Campagna, 4 ducati; Donato Troianetti, 4 ducati; Ercole Nelli, 12 ducati; Filippangelo, Giuseppe e Giovanni Maiocco, 3 ducati; Filippo Jacobellis, 4 ducati; Francesco Tomaselli, 5 ducati; Francesco d’Ambrosa, 5 ducati; Giuseppe d’Ambrosa, 1 ducato; Giovanni Battista Jacobellis, 3 ducati; Giovanni di Grazia, 3 ducati; Giovanni Battista e Giovanni Camillo Iannucci, 1 ducato; Giuseppe Occhibove, 3 ducati; Giacomo Natalizio, 4 tarì; Giuseppe Benevenia, 1 ducato; Pietro Campi, 1 ducato; Pietro Brando, 6 ducati; Tomaso della Guardia, 2 ducati; Vincenzo Occhibove, 1 ducato; Vincenzo di Cesa, 4 ducati; Giovanni Battista e Giacomo Carangelo, 5 ducati; Andrea di Cesa e Violante Macaro, 3 ducati; l’Eccellentissimo Signor Duca padrone[Antonio Gaetani d’Aragona], per tanti legati, 87 ducati; l’Università di Piedimonte, per un legato di tre messe quotidiane, cioè due per il quondam Signor Don Carlo Gaetano e un’altra per l’Eccellentissimo Signor Duca vivente, 210 ducati; la medesima Università dona altri ducati 25, da un capitale di ducati 500 lasciati dal medesimo quondam Don Carlo Gaetano, per la sacrestia; la medesima Università dona altri 140 ducati, presi da un capitale di ducati 3000, quelli del quondam Padre Giuseppe de Giamis; Andrea de Parrilis, 17 ducati; Salvatore e Vincenzo d’Amico, 5 ducati; Giuseppe di Fondo, 6 ducati; Marc’Aurelio Nelli, 3 ducati; Clerico Giuseppe Perrino, 11 ducati; Marcellino de Giamis, 17 ducati. AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)». Sui terreni dati in fitto dal convento apprendiamo dalla medesima lista le seguenti informazioni «Affitti di territori in Piedimonte e San Potito: Per l’ orto del Condotto si pagano 16 ducati annui; Giuseppe Battiloro, per l’affitto di un pastino, paga annui ducati 7; Ercole Cerbo, per l’affitto di un territorio, paga 24 ducati annui; Pascale Codone, per l’affitto di un orto, paga 23 ducati annui. Affitti di case in Alife e Piedimonte: Francesco Abbate paga annui ducati 10; Antonio e Marco Barbati pagano annui ducati 18; Biaso Di Lullo paga annui carlini 30; Giuseppe Rosso paga annui ducati 7; Domenico Cardone paga annui ducati 6; Fabrizio Ferraro paga annui ducati 4; Geronimo Santino paga annui ducati 6; Marc’Antonio di Gregorio paga annui ducati 2; Alessandro Santagata paga annui ducati 7. Territori fittati in Alife e Baia: un territorio di moia (moggi) 9 in un luogo detto «Le Teiole»; un territorio di moia 13 in un luogo detto «Le Vesche»; un territorio di moia 42, quello proprio lasciato dal quondam Padre Giuseppe de Giamis detto «Le Perrazzete»; un altro territorio nel medesimo luogo di moia 6; un altro in Baia di moia 12 in un luogo detto «Sant’Andrea». AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)». Riveste una particolare rilevanza potere qui ricostruire, sia pure limitatamente ad una scansia di libri, l’antica biblioteca del convento del Carmine, senza il cabotaggio delle piccole analisi, ma mettendo giustamente in risalto i volumi che formarono le coordinate intellettuali di quel clero regolare « 1) Aureus de Latinae linguae proprietate libellus. Auctore Martini Primario Salmaticensi, … Ioannis Baptista a Queralt, alias Peralta … obseruationibus illustratus, Neapoli, ex typographia Secundini Roncalioli 1621. 2) Lo Spicilegio di Santa Teresa d’Avila. 3) R.P. Roderici de Arriaga, e Societate Iesu, lucroniensis hispani, S. Theologiae doctoris … disputationum theologicarum in primam partem d. Thomae, tomi duo, Lugduni, sumpt. haered. Gabr. Boissat & Laurentji Anisson 1644. 4) R. P. Roderici de Arriaga Hispani Lucroniensis… cursus philosophicus, iam noviter maxima ex parte auctus, et illustratus, et a variis objectionibus liberatus, necnon a mendis expurgatus, Lione, Sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Guillielmi Barbier. 1669. 5) R.P. Roderici de Arriaga, e Societate Iesu, … Disputationes theologicæ in secundam secundæ D. Thomæ. Vniuersi cursus theologici tomus quintus: qui continet tractatus de virtutibus theologicis, fide, spe, & charitate: item de virtutibus cardinalibus, prudentia, fortitudine & temperantia, Lugduni, sumptibus Laurentij Anisson, & soc. 1651. 6) R.P. Roderici de Arriaga … Dispvtationes theologicae in tertiam partem d. Thomae Vniuersi cursus theologici tomvs septimvs : Complectens tractatvm Desacramentis in genere, et De eucharistia, Lvgdvni sumptibus Laurentii Anisson 1669. 7) Rodrigo de Arriaga, Tomus secundus: siue Vniuersi cursus theologici tomus quartus: qui continet tractatus de legibus, Diuina gratia, Iustificatione, Merito, Lugduni sumptibus sumpt. haered. Gabr. Boissat & Laurentji Anisson 1644. 8) R. P. Francisci de Oviedo, Madritani, Societatis Iesu, Theologiae Professoris, Cursus Philosophicus ad unum corpus redactus, Tomus primus, complectens Summulas, Logicam, Physicam, Libros de Coelo & de Generatione, secunda editio, ab Auctore aucta,& a pluribus, quibus scatebat, mendis expurgata, Lugduni, sumpt. Philippi Borde, Laurentii Arnaud & Claudii Rigaud 1650. 9) Philosophiae R. P. Francisci de Oviedo, Madritani, Societatis Iesu, Sacrae Theologiae Professoris, Tomus II complectens libros de Anima, et Metaphisicam, tertia editio, ab Auctore aucta,& a pluribus, quibus scatebat, mendis expurgata, Lugduni, sumpt. Philippi Borde, Laurentii Arnaud, Petri Borde, & Guilelmi Barbier MDCLXIII. 10) R.P. Francisci de Ouiedo … Tractatus theologici, scholastici et morales, de virtutibus fide, spe, et charitate, cum triplici indice, Lugduni, sumptibus Philippi Borde, Laurentii Arnaud et Claudii Rigaud 1650; 11) Il Sinodo Beneventano. 12) Il Vocabolario della Crusca. 13) Juan de Lazcano, Primera parte de los libros de oracion, y meditacion, Ayuno, y Limosna, con otros tratados pertenecientes a lo mismo. Compuestos por el Padre Fray Iuan de Lazcano. Lector de Theulugia en el Convento de Santiago y Universidad de la Ciudad de Pamplona, de la Orden de Santo Domingo. Dedicados a la Virgen Santa Teressa de Ieusus, Fundadora de la Religion de los Carmelitas descalços, in Pamplona, por Iuan de Oteyza, Impressor del Reyno de Navarra 1630. 14) Quaresimale del padre Luigi Giuglaris della Compagnia di Giesù, In Venetia, appresso i Guerigli 1671. 15) Quaresimale del padre maestro fra Agostino Paoletti da Montalcino, dell' ordine Eremitano del gran padre e patriarca santo Agostino, con copiosissime tavole, In Venetia, per il Tomasini 1660. 16) Prediche quaresimali del P. D. Romolo Marchelli genouese bernabita, In Venetia, appresso Gasparo Storti 1679. 17) La Sacra Bibbia. 18) Filippo da Sampiero, La Tromba della fama, risonante le cose diuine, et humane, coll'eruditioni, e coll'historie. Necessaria a chiunque e vago di saper compendiosamente il tutto del mondo. Disposta secondo l'ordine alfabetico, e data in quattro tomi dal r. p. Filippo da Sampiero Monforte in Sicilia, assistente prouinciale de’ Padri Carmelitani Riformati del primo istituto, detti di Monte Santo. Dedicata all'eccellenza del signor d. Andrea Imperiale … In Napoli, per Michele Monaco 1678. 19) Della prima parte delle prediche, e sermoni diuersi del m.r.p.f. Francesco Batinelli preterito prouinciale, e definitore della prouincia di Napoli dell'ordine de' Minimi. Tomo primo, e secondo. … In Napoli, per Giacinto Passaro 1668. 20) Della seconda parte dell'opere del padre Francesco Battinelli intitolata Stachilogia historica cioè scelta d'historie, libro primo … In Napoli, per Gio:Francesco Paci 1669. 21) R.P.F. Philippi Diez Lusitani, … Summa praedicantium, ex omnibus locis communibus locupletiss., Venetiis 1591. 22) R.P.F. Philippi Diez Lusitani, … Summa praedicantium ex omnibus locis communibus locupletissima. Pars secunda, Venetiis, apud Damianum Zenarum 1591. 23) Panegirici del Vincenzi. 24) Filosofia del Semerì, tomi tre. 25)Tommaso De Vio (Caietanus), D. Thomae De ente et essentia libellus, Thomæ Vio Caietani cardinalis tituli sancti sixti commentariis doctè explicatus, Lugduni, apud Simphorianum Beraud, 1571. 26) Panegirico di S. Rosalia del Vinci. 27) Prosodia italiana. 28) Il Mondo grande. 29) Armoniae Theologicae. 30) Panegirici sacri del padre baccelliere fr. Bonauentura de Bottis Min. Con. di San Francesco. ... In Napoli, nella stampa di Vernuccio e Layno 1684. 31) Panegirici sacri del P. Scipione Paolucci della Compagnia di Giesù, In Napoli, per Giacomo Gaffaro 1649. 32) Decisiones Casuum Conscientiae. 33) Cipriano Suarez, Cypriani Soarii e societate Iesu, de arte rhetorica libri tres. Ex Aristotele, Cicerone, & Quintiliano praecipue deprompti, Venetiis, Typis Ginammeis 1659. 34) Cesare Calderari, Concetti scritturali intorno al Miserere, del reuer. D. Cesare Calderari da Vicenza … spiegati in 33. lettioni, le quali furono lette dall'istesso nel sacro tempio della Nontiata dia Napoli, l'anno 1583. Con l'applicatione di molte feste correnti, … con due vtilissime tauole, In Venetia, presso Gio. Battista Bonfadio 1587. AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)».
Nel 1688 «la famiglia del Convento di Piedimonte» era composta da: 1) Maestro Priore Domenico Antonio Frenza. 2) Baccelliere Giuseppe Pignataro, Reggente di Teologia, 3) Lettore Gioacchino Casella, Secondo Reggente di Teologia. 4) Padre Angelo Perretta, sottopriore e clavario. 5) Padre Alberto Apicio, organista. 6) Padre Cristofano Caramanna. 7) Padre Angelo Marzullo, studente di Teologia. 8) Padre Carlo Mazzarella, studente di Morale. 9) Padre Alberto Manfredi. 10) Frate Bernardino Cipullo, studente di Teologia e chierico. 11) Frate Giuseppe Maria Marzati, chierico e studente di Filosofia. 12) Frate Giuseppe Maria Langella, chierico e studente di Filosofia. 13) Frate Alberto Volpe, chierico. 14) Frate Giuseppe Lucia, laico. 15) Frate Elia dell’Orgio, laico. 16) Frate Giovanni Battista Pezza, Laico. 17) Frate Giuseppe Pacifico, laico. 18) Frate Alessio d’Onofrio, terziario. AGOC, II «Prov. Terrae Laboris», 5 «Conventus Singuli: Piedimonte d’Alife (1525- 1768)».
L’azione pastorale di monsignor Porfiri attraversò più di un quarto di secolo e s’incentrò prevalentemente nel rivitalizzare il culto di San Sisto in Alife e nel far adottare dai piedimontesi la devozione per San Venanzio, santo patrono di Camerino. La città camerte e la diocesi alifana per il presule d’origine marchigiana rappresentarono un’endiadi dell’anima, dato che si riducevano in un concetto unitario. Un corposo studio, basato su di una notevole mole documentale, descrive le relazioni fra monsignor Porfiri e i fedeli diocesani, ponendo in evidenza che di sovente furono antitetici. Ciò non deve indurre a facili congetture, specialmente se si tiene conto di una posizione delicata e d’equilibrio come quella episcopale. Doversi destreggiare tra governo regio, potenti feudatari e fedeli richiedeva una notevole capacità di resilienza. Alcuni amministratori provenienti da Alife, il 4 marzo 1717, si recarono nell’episcopio a Piedimonte «ed ivi giunti, in una stanza superiore di detto palazzo, dopo lungo tratto di tempo, ed imbasciate fatte al divisato Vescovo, il medesimo si è fatto incontrare. Allora, il sindaco di Alife ha esibito e consegnato una lettera della Sacra Congregazione del Concilio, in data 30 gennaio 1717 sottoscritta dall’eminentissimo signor Cardinale Panciatici e diretta ad esso monsignor Vescovo. Con volto assai sdegnato il prefato Vescovo, quasi strappandola dalle mani del nominato sindaco, voltando a lui le spalle, ha proferito: andate, malnati di Alife! Cfr. Sasso, p. 83). Durante l’episcopato di monsignor Porfiri ci fu un costante apporto al patrimonio artistico diocesano, come mette in evidenza Katiuscia Marino, riportando in appendice i contratti di committenza: «1) Contratto dei maestri d’ascia Joseph e Paolo Mosca per la realizzazione della porta maggiore della chiesa dell’Annunziata in Piedimonte, 1705. 2) Concessione dell’Altare della Santissima Annunziata al vescovo A. M. Porfirio nella chiesa dell’Annunziata di Piedimonte, 1707. 3) Cessione dell’orto di Domenico Montone per l’ampliamento della Chiesa di San Nicola in Piedimonte, 1708. 4) Contratto del maestro Giovanni Calire per l’erezione e la progettazione della cappella del Santissimo Sacramento nella cattedrale di Alife, 1710. 5) Contratto con l’architetto e stuccatore G. Calire per gli stucchi del frontespizio della chiesa dell’Annunziata in Piedimonte, 1711. 6) Convenzione dei fabbricatori M. Albertino e G. Mastro Cola per l’erezione della nuova cappella di San Sisto nella cattedrale di Santa Maria Assunta in Alife e del nuovo quarto di fabbrica del Seminario vescovile in Piedimonte, 1711. 7) Contratto di Pietro di Lonardo per la costruzione di una cisterna nel cortile del Seminario vescovile in Piedimonte, 1712. 8) Convenzione con Mattia Albertino per la costruzione della copertura con lamia finta nella chiesa di Santa Maria della Libera di Carattano in Gioia Sannitica, 1712. 9) Convenzione con Mattia Albertino per la costruzione di una nuova fabbrica nel Seminario vescovile di Piedimonte , 1712. 10) Contratto con Giovanni Gianarelli per la realizzazione della soffitta a lamia finta e degli stucchi della chiesa del Santuario di Santa Maria Occorrevole in Piedimonte, 1715. 11) Contratto con Alessio Mascioli per l’erezione della nuova chiesa di San Gregorio in San Gregorio, 1726. (Marino, p. 169)».
Monsignor Ivone, a causa delle breve permanenza sulla cattedra alifana, non scrisse alcuna relazione ad limina, tuttavia in quegli anni fu commissionata al pittore Nicola Maria Rossi la grande tela, raffigurante «Le Nozze di Cana», che si trova a Piedimonte nella chiesa della Santissima Annunziata. Non menzionata nel breve ma denso profilo biografico su Nicola Maria Rossi contenuto nelle «Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani (De Dominici, pp. 1309- 1324)», l’opera fu commissionata dai fratelli Trutta, come si ricava dall’atto notarile, rogato dal notaio Tommaso Ciccarelli e riportato da Katiuscia Marino: «Il giorno 7 marzo del 1731 nella città di Piedimonte, alla nostra presenza, [sono] costituiti il sig. Nicola Maria Rossi dipignitore napolitano ed il magnifico reverendo canonico signor Don Gianfrancesco Trutta ed il dottor signor Don Marzio Trutta, fratelli germani, governatori della venerabile cappella e confraternita della Santissima Annunziata, eretta dentro la collegiata chiesa sotto lo stesso titolo della Terra di Piedimonte nella contrada di Vallata. Esse parti vengono all’infrascritta convenzione, mediante la quale il detto signor Nicola promette e s’obbliga a dipingere di sua mano, sopra le tele che li saranno consegnate in Napoli da essi governatori, tre quadri per lo coro della detta venerabile chiesa, cioè in uno di essi, di lunghezza palmi trenta e d’altezza palmi diciotto, la Cena di Nostro Signore nella Nozze fatte in Cana di Galilea, secondo la macchia o sia sbozzo da esso già fatto; e negli altri due laterali, nel medesimo coro, ciascun de’ quali deve essere di lunghezza palmi quattordici e di altezza palmi sette, due istorie della Sacra Scrittura appartenenti, e allusive alla vita di Nostra Signora, ad elezione ed arbitrio dello stesso signor Nicola, col numero però di figure a proporzione della grandezza de’ medesimi quadri. Tutt’e tre i quadri suddetti [sono] da dare e consegnare in detta città di Napoli in potere di essi governatori, e loro successori, e ad altre persone che destinaranno, compreso il quadro grande con la sacra storia della Cena di Cana di Galilea, fino a tutto il mese di dicembre prossimo venturo dell’anno corrente 1731. E questo per lo prezzo tra di esse parti convenuto, concordato e stabilito, di ducati duecentocinquanta. De’ quali ducati duecentocinquanta il detto signor Nicola, presenzialmente e manualmente, ne ha ricevuti ed avuti da detti signori governatori, ducati cento, consistenti in tante monete d’oro e d’argento. E gli altri ducati centocinquanta, i frati signori governatori spontaneamente promettono e s’obbligano a dare e pagare in Napoli al detto signor Nicola nell’atto della consegna che a lor si farà del detto quadro grande. E al pagamento di detti ducati centociquanta, come di sopra stabilito, non si [deve] mancare, né cessare per ragione di guerra, peste o altro caso fortuito, raro, insolito, inopinabile. (Convenzione tra i canonici Trutta ed il pittore Nicola Maria Rossi per la realizzazione di tre tele ad ornamento della parete centrale e di quelle laterali del coro della chiesa dell’Annunziata in Piedimonte, 1731. Cfr. Marino, pp. 120- 121)».
Le relazioni di monsignor Isabelli sono scritte in un latino di rara eleganza, molto forbito, sia per la ricercatezza dei vocaboli sia per la sintassi ipotattica. Monsignor Innocenzo Sanseverino si mostra buon conoscitore della storia romana e interessato ai reperti archeologici sparsi per il territorio, palesandosi nel suo testo un forte entusiasmo per la lettura dell’antico. Monsignor Filippo Sanseverino, ad ottobre 1757, con i domenicani di Piedimonte ebbe un attrito, cui seguirono annosi riflessi giudiaziari (Contenti, pp. 57- 71). Monsignor Francesco Ferdinando Sanseverino, sia pure allontanatosi spesso e a lungo dalla sede vescovile, fu sempre attento alla cose della sua diocesi.
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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]
Storia della Campania. Risorse in rete per la storia del territorio e del patrimonio culturale
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241686 | DOI 10.5281/zenodo.3408416
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