di Donato D’Urso
Gaetano Cammarota apparteneva a famiglia borghese del Meridione. Il nonno Giuseppe, originario di Atripalda e legale di professione, aveva sostenuto la Repubblica Partenopea e per questo, dopo il ripristino del governo borbonico, il 4 gennaio 1800 fu giustiziato, all’età di 34 anni.
Il nipote Gaetano nacque nel 1828. A Napoli frequentò la scuola di matematica e filosofia tenuta da Luigi Palmieri ed ebbe per compagno di studi Pasquale Villari. Le vicende politiche del 1848 segnarono la sua vita. Quando il 15 maggio s’arrivò allo scontro armato, egli era sulle barricate. Ricercato dalla polizia, riuscì ad imbarcarsi su una nave per Marsiglia e da lì raggiunse il Piemonte. Sorte meno fortunata ebbe il fratello Giuseppe: condannato a un anno di reclusione per «imputazione d’irriverenza alla forza armata» espiò la pena ma non fu rimesso in libertà e morì in carcere.
L’esule Cammarota, all’inizio, si guadagnò da vivere collaborando con qualche giornale torinese poi, grazie all’interessamento di Domenico Berti, ottenne un incarico di insegnamento di scienze naturali nell’istituto delle allieve maestre. Frequentando gli ambienti dell’emigrazione meridionale ne conobbe tutti gli esponenti più autorevoli. Strinse rapporto di amicizia con Francesco De Sanctis, che aveva lasciato Napoli dopo un periodo di carcerazione. Invano Cammarota si adoperò per fare ottenere al futuro ministro della Pubblica Istruzione il posto di direttore del collegio delle Peschiere di Genova, primo istituto femminile di educazione che si fregiasse del titolo di “italiano”. Gli fu preferito il poeta Luigi Mercantini. Più avanti De Sanctis chiese a Cammarota di organizzargli in Alessandria un corso di quattro lezioni su Leopardi, al costo di cinque franchi per ogni iscritto. Queste le sue amare considerazioni: «Qui trova più facilmente a vivere un operaio che Tommaseo. C’est tout dire».
Nell’estate 1860, a seguito delle straordinarie vicende seguite alla spedizione garibaldina, gli emigrati napoletani rientrarono in patria alla spicciolata. Il 6 agosto da Genova fece rientro il gruppo comprendente Licurgo Cavallo, Angelo Camillo De Meis, Diomede Marvasi, Francesco De Sanctis, Gaetano Cammarota.
Dopo qualche tempo De Sanctis assunse funzioni ministeriali e compì, in pochi giorni, una rivoluzione nell’ordinamento degli studi e negli incarichi di insegnamento, rimuovendo d’un colpo più di trenta professori universitari. Favorì la nomina dell’amico Cammarota a direttore della scuola normale maschile di Napoli. Il compagno di esilio entrò così nell’amministrazione scolastica dalla porta principale e, in seguito, fu inviato in missione a Losanna per studiare il metodo educativo di Friedrich Froebel.
Nel 1862 Carlo Matteucci, nuovo ministro della Pubblica Istruzione, istituì un ufficio centrale ispettivo e chiamò a farne parte Cammarota, nominato ispettore per le scuole primarie delle province napoletane. Insieme con altri funzionari egli accettò di trasferirsi a Torino capitale, per prestare servizio nell’amministrazione centrale. In seguito, fu incaricato delle funzioni di provveditore agli studi ad Asti, Firenze, Roma.
A Firenze rimase a lungo e frequentò il salotto di casa Peruzzi, tenuto da Emilia Toscanelli moglie di Ubaldino. Tutto il potentato della Destra storica, politici, intellettuali, grands commis frequentavano quel cenacolo elevato, a cui fece per breve tempo da contraltare quello di Maria Letizia Bonaparte, “moglie terremoto” di Urbano Rattazzi.
La più bella descrizione del salotto Peruzzi è quella lasciataci da Edmondo De Amicis, letteralmente ammaliato dalla padrona di casa: «Vi erano raccontatori magistrali che tenevano intenti per un’ora venti uditori; lettori infaticabili come il Cammarota, il Prezzolini, il Cherubini, che portavan là alla discussione il primo giudizio d’ogni nuovo libro» (Luigi Prezzolini, poi prefetto, era il padre di Giuseppe; Rodolfo Cherubini era professore di liceo).
Al periodo fiorentino risale un gustoso aneddoto riguardante l’impiegato Carlo Lorenzini, autore di Pinocchio. Un giorno il provveditore Cammarota lo trovò sdraiato in ufficio, con le gambe distese su una seggiola e il cappello inchiodato in testa. Lorenzini all’arrivo del superiore non si scompose. Cammarota gli disse: «Vede, io ho a casa un fratello che è precisamente come lei. Tiene sempre il cappello in capo e può entrare il Re, non c’è caso che se lo levi». E l’altro gli rispose tranquillamente: «Dev’essere un gran brav’uomo cotesto suo fratello. Quando gli scrive me lo saluti tanto tanto».
Cammarota sostenne l’iniziativa per istituire un liceo femminile: i regolamenti universitari del 1876 permettevano alle donne di iscriversi all’Università, purché in possesso del diploma superiore, ma poiché non erano contemplate scuole miste, in diverse città furono promosse iniziative per aprire licei femminili. Al comitato fiorentino aderirono Pasquale Villari, Cammarota, Torello Sacconi prefetto della Biblioteca Nazionale e alcune signore della buona società, anche straniere. Fu anche invocata la nascita di una scuola di magistero, per «provvedere alla maggiore cultura della donna» e formare «idonee insegnanti nelle nostre Scuole femminili magistrali, normali, superiori e professionali». De Sanctis ebbe al suo fianco ancora una volta l’amico Cammarota e il sindaco Ubaldino Peruzzi.
La sostanziale armonia tra le istituzioni statali e i maggiorenti toscani, aristocratici e non, fu rotta dal dissidio sulle scuole dei Padri delle Scuole Pie. La loro egemonia culturale era incontrastata: i liberali toscani sostenevano che gli Scolopi non erano i Gesuiti, erano buoni patrioti e buoni cattolici a un tempo. Chi aveva i mezzi economici, a prescindere dalle convinzioni religiose, preferiva iscrivere i figli ad istituti retti da ecclesiastici, giudicati migliori. Tra le ragazze quelle che, dopo la scuola primaria, frequentavano educandati retti da congregazioni erano in numero quadruplo rispetto alle altre. Oltretutto, gli istituti religiosi erano in grado di soddisfare utenze con possibilità economiche differenziate, sia perché dotati in genere di cospicui patrimoni immobiliari, sia perché non gravati da costi di personale.
A Firenze si confrontarono con durezza chi rappresentava lo Stato e chi l’autorità ecclesiastica: da un lato il prefetto Cesare Bardesono di Rigras, dall’altra monsignor Eugenio Cecconi. Quest’ultimo, nei confronti della questione romana e dei rapporti fra Chiesa e Stato, era su posizioni intransigenti, alieno da qualsiasi posizione filo-conciliatorista che a Firenze aveva qualche seguito nella «Rassegna nazionale».
La decisione che prevedeva la chiusura delle scuole dei Padri delle Scuole Pie provocò forti reazioni negative. Il 4 settembre 1878 Bettino Ricasoli scrisse in questi termini al prefetto Bardesono: «Giunsi qui ieri sera. Cammin facendo seppi per mezzo di giornali l’abolizione dell’antico Istituto fiorentino. Ritenendo come improvvido per molti aspetti un tale atto, né potendo ritenere per affatto estraneo al medesimo il Capo politico della Provincia, giudico inopportuno per entrambi che io venga oggi a darle incomodo, sicuro che Ella me ne terrà per iscusato; tanto più che da tale risoluzione si fa a me manifesto che i miei giudizi sulla cosa pubblica differiscono sostanzialmente dai suoi» (Carteggi di Bettino Ricasoli, p. 384). Era poco meno che una dichiarazione di guerra e presto se ne videro gli effetti.
Il provvedimento formale di chiusura fu adottato, asseritamente per motivi di bilancio, d’intesa tra il regio commissario del comune barone Felice Reichlin e il consiglio scolastico provinciale presieduto dal prefetto. La Sinistra di governo anche a Firenze volle dare il segnale che non retrocedeva di un passo nell’affermazione dei principi laici. La scuola doveva diventare la “chiesa dei tempi moderni” (secondo le parole di Agostino Depretis), strumento fondamentale per contrastare l’influenza del clero sulle masse: cultura e scienza sostitutive della fede.
I cattolici contestavano il principio stesso dell’istruzione obbligatoria e delle scuole pubbliche, sostenendo che lo Stato non poteva obbligare i genitori a mandare i figli alle sue scuole. Stato e Chiesa erano ai ferri corti persino sul calendario scolastico: la legge piemontese del 1853, estesa al resto d’Italia, prevedeva nell’anno dieci giorni festivi oltre le domeniche e il fatto che non fossero riconosciute parecchie festività religiose dava luogo a inconvenienti, ad esempio le assenze dalle lezioni degli scolari, in giorni che erano festivi per la Chiesa ma non secondo il calendario civile, penalizzavano il giudizio sulla condotta e l’attribuzione dei premi. La scuola era campo di scontro anche per l’insegnamento della religione e la presenza dei crocifissi nelle aule.
A seguito delle polemiche sugli Scolopi, nel corso del 1879 il prefetto Bardesono e il provveditore Cammarota dovettero lasciare Firenze. Il primo era rimasto in sede solo sette mesi, il secondo dodici anni. È probabile che l’iniziativa anti-Scolopi fosse partita dal ministro De Sanctis, come faceva capire a sua difesa e discolpa lo stesso Cammarota scrivendo a Peruzzi. Il provveditore era venuto a trovarsi tra l’incudine e il martello: da un lato le direttive da Roma, dall’altro le pressioni dell’establishment fiorentino col quale tanto bene si era amalgamato. Fu il successore di Bardesono, Clemente Corte, a chiedere, nel settembre 1879, la sostituzione del provveditore: «Nell’interesse della istruzione pubblica rendesi sempre più necessario ed urgente il destinare altrove il cavalier Cammarota. E invero le relazioni che questi ha contratto nella sua lunga residenza a Firenze sono oggidì di inciampo alla sua azione che di giorno in giorno si appalesa meno efficace» (M. Raicich, Due protagonisti, p. 195).
Cammarota fu trasferito a Roma, dove rimase un decennio. Lì, tra l’altro, sostenne le iniziative educative di Giuseppina Le Maire. Dal 1892 al 1896 diresse al ministero la divisione per l’istruzione primaria e popolare e fu componente del consiglio superiore della pubblica istruzione.
La biografia di Gaetano Cammarota è ricca di spunti interessanti anche per il contesto familiare.
Nel 1881, a 53 anni, egli sposò Sofia Cornero, assai più giovane, figlia di Giuseppe Cornero ed Enrichetta Caldani. Aveva conosciuto quella famiglia negli anni dell’esilio in Piemonte. Giuseppe Cornero, figlio di uno degli avvocati più noti del foro subalpino, in gioventù fu mazziniano e cospiratore tanto che, durante il viaggio di nozze, nascose corrispondenza compromettente in mezzo alla biancheria della moglie dove, presumeva, le guardie non avrebbero guardato. Spostatosi poi su posizioni di liberalismo moderato, Cornero fu sette volte deputato a partire dal 1848, prima di essere nominato prefetto. La moglie Enrichetta Caldani aveva un padre industriale di simpatie repubblicane, che più volte aveva accumulato e perso ingenti fortune. Fu l’animatrice di un «salotto borghese vagante fra Torino, Acqui e Rocca d’Arazzo, la dimora estiva fra Asti e Alessandria del Cornero, che aveva come frequentatori uomini di vario e talora non piccolo rilievo nelle vicende del decennio risolutivo 1850-60, piemontesi, esuli meridionali ed anche personaggi stranieri» (Cognasso, Nobiltà e borghesia, p. 195).
Il matrimonio tra Gaetano Cammarota e Sofia Cornero esaudì «veramente un po’ tardi, il desiderio dei genitori di lei, e specialmente quello della madre». L’unione fu allietata dalla nascita di Enrico che, diventato pioniere dell’aviazione, morì a 28 anni, nel 1910, precipitando all’aeroporto romano di Centocelle.
Sofia Cornero Cammarota era legata agli ambienti di corte, specialmente alla regina Margherita. Ebbe un ruolo attivo nell'Associazione nazionale per gli interessi del mezzogiorno d'Italia (ANIMI), fu in relazione con gli ambienti nazionalisti e interventisti, coltivò amicizie con gli esuli russi che soggiornavano a Capri ma anche col futuro beato don Luigi Orione, avviò un esperimento scolastico e pedagogico in Calabria, a fianco di Umberto Zanotti-Bianco. Fu crocerossina in età matura durante la I guerra mondiale e morì nel 1939.
Il marito Gaetano Cammarota era mancato trent’anni prima, l’8 febbraio 1909, a 81 anni. Scrisse Pasquale Villari: «Se qualche cosa a lui mancava era l’ambizione di salire in alto, l’iniziativa, la febbre del lavoro». L’archivio personale fu donato dalla vedova all’ANIMI.
Bibliografia
- Carteggi di Bettino Ricasoli, vol. XXIX, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1980.
- L’archivio Zanotti-Bianco di Reggio Calabria: Sofia Cammarota e la Grande Guerra, in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, 1996, pp. 43-109.
- L’educazione delle donne: scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, F.Angeli, Milano 1989.
- Guido Biagi, Il babbo di “Pinocchio”, in “La Lettura”, marzo 1907, p. 113.
- Arnaldo Cervesato, Gaetano Cammarota, Tipografia dell’Unione editrice, Roma 1909.
- Francesco Cognasso, Nobiltà e borghesia a Torino nel Risorgimento, in Il movimento unitario nelle regioni d’Italia, Laterza, Bari 1963, pp. 194-196.
- Edmondo De Amicis, Un salotto fiorentino del secolo scorso, Barbera, Firenze 1902.
- Carlo de Nicola, Diario napoletano dicembre 1798-dicembre 1800, Giordano editore, Milano 1963, pp. 492, 500.
- Francesco De Sanctis, Epistolario, voll. XVIII-XIX-XX-XXI, Einaudi, Torino 1956-1969.
- Silvia Franchini, Élites ed educazione femminile nell’Italia dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1993.
- Patrizia Gabrielli, I luoghi e l’impegno sociale di un’educatrice: Giuseppina Le Maire tra Roma, Cosenza, Gorizia, in “Storia e problemi contemporanei”, 31, 2002, pp. 75-102.
- Mario Manfroni, Gaetano Cammarota nelle barricate di via Toledo, in “Il Giornale d’Italia”, 13 febbraio 1909
- Giuseppe Paladino, Il quindici maggio del 1848 in Napoli, Soc. editrice Dante Alighieri, Milano 1920.
- Marino Raicich, Due protagonisti: De Sanctis e Ascoli, in Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Nistri-Lischi, Pisa 1982.
- Ubaldo Rogari, Due regine dei salotti nella Firenze capitale: Emilia Peruzzi e Maria Rattazzi fra politica, cultura e mondanità, Sandron, Firenze 1992.
- Pietro Vigo, Annali d’Italia: storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, II, Fratelli Treves, Milano 1908, pp. 297-298.
- Pasquale Villari, Gaetano Cammarota, in Storia politica e istruzione: saggi critici, Hoepli, Milano 1914, pp. 94-98.
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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]
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