Cronache caiatine del XVIII secolo

A cura di Armando Pepe

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Pagina principale di riferimento: Fonti per la storia di Caiazzo in età moderna e contemporanea

Fonti archivistiche

  • Archivio di Stato di Firenze (d’ora in avanti ASFi), Fondo Guicciardini Corsi Salviati, filza 150 “Caiazzo, amministrazione giurisdizionale”, fascicolo 23 “Relazione dell’omicidio fatto da Pietro Antonio della Selva in persona di Giacinto Corso, con mandato di Giuseppe Cocci, già Agente generale per il marchese Corsi dello Stato di Caiazzo; e altri 8 documenti tra originali e in copia relativi al processo intentato contro il detto Cocci dalla madre e figliuole dell’ucciso. L’ultimo è a stampa. Ragioni che entrano a sostenere la giusta querela della vedova Teresa Morrone (madre di Giacinto Corso) e di Caterina, Orsola e Angela Corso vergini in capillis sue figlie contro Giuseppe Cocci, ecc.”.
  • ASFi, Fondo Guicciardini Corsi Salviati, filza 150 “Caiazzo, amministrazione giurisdizionale”, fascicolo 22 “Relazione della liberazione di Tommaso Giannelli dalle mani degli armigeri di Caiazzo, operata con violenza dai fratelli Paolo e Nicola Feminiano”.

Premessa

Una ricerca evenemenziale non è per forza di cose limitata a un solo avvenimento, poiché i fatti sono sempre in reciproca relazione tra loro. Il tratto distintivo dell’esperienza locale si situa a pieno diritto in una visione più ampia e poliedrica. Il punto d’intersezione tra l’antropologia culturale, la tradizione topografica e le scienze dell’economia costituì il paradigma interpretativo da cui prese le mosse Edoardo Grendi nella ricostruzione di nuovi percorsi di ricerca per la storiografia ligure in età moderna e contemporanea. La dimensione particolaristica non scade nella microstoria soltanto se offre continui spunti esegetici. A ogni buon conto, i fatti di cronaca giudiziaria avvenuti nell’Italia del passato destarono l’attenzione finanche di Stendhal . E non è poca cosa. Anche in pagine di nuda cronaca giudiziaria si riscontrano elementi di processi criminali (in puro stile forense) e testimonianze di vita quotidiana facilmente reversibili in attraenti occasioni di studio. Gli atti concernenti la morte di Giacinto Corso, avvenuta nel maggio 1736 in Caiazzo, sorprendono per la nitidezza della narrazione (oggi diremmo storytelling) e per la vasta eco suscitata ad ampio raggio. La scena del crimine è lo spazio antistante l’antica Locanda di Porta Vetere, oggi non più esistente. Del resto, il ‘gran teatro’ della vita caiatina si svolgeva quasi interamente nel centro storico. Da Porta Vetere, prendendo l’attuale via Aulo Attilio Caiatino, s’incontrano, in breve sequenza, la chiesa di San Francesco, la piazza con la cattedrale (intitolata a Maria Santissima Assunta e a Santo Stefano vescovo) e la chiesa dell’Annunziata (cui era annesso un ospedale) col bel portale rinascimentale del 1498. Continuando, si gira attorno al castello (di epoca longobarda, ma restaurato da Alfonso I d’Aragona) e si ritorna a Porta Vetere. Il processo per il delitto Corso, data la gravità del misfatto, fu affidato alla giurisdizione straordinaria del Tribunale di Campagna1 e solamente nel 1740, per gli accorati appelli delle familiari, passò alla Ruota criminale della Gran Corte della Vicaria in Napoli. Le donne della famiglia Corso pretendevano un giusto processo in cui fossero rispettati i requisiti della terzietà e dell’imparzialità del giudice. Purtroppo, la documentazione attinente alla Ruota criminale andò quasi totalmente distrutta nel 1852, a seguito della decisione della Commissione diplomatica e della Consulta di Stato e, pertanto, non è più possibile rintracciare la sentenza del processo per la morte di Giacinto Corso. Leggendo le carte processuali emergono modi di dire, usanze e toponimi, tutti funzionali all’indagine su una comunità o sui diversi gruppi sociali. Da un’anamnesi sul modo d’amministrare la giustizia penale nel regno di Napoli all’epoca di Carlo III di Borbone, si può risalire alla tradizione forense, incentrata sull’esempio dei grandi giuristi del passato, come Bartolo da Sassoferrato, Jacques Cujas (conosciuto anche come Jacopo Cuiacio ) e il romano Prospero Farinacci , mago dello scibile criminalistico, secondo l’efficace definizione di Franco Cordero . Lo Stato feudale di Caiazzo fu acquistato nel 1615 dal ricchissimo mercante fiorentino Bardo Corsi , insignito del relativo titolo marchesale. Feudatario di Caiazzo dal 1729 al 1743 fu il marchese Antonio Corsi (sposato con l’aristocratica Laura Riccardi ) che usualmente abitava nella grande villa di famiglia a Sesto Fiorentino . Aurelio Musi2, in modo sintetico ed efficace, osserva che: "Nella prima Età moderna le corti feudali nel Regno di Napoli divennero sempre più macchine complesse; apparati amministrativi (con ranghi superiori e inferiori) per svolgere la triplice funzione che era assegnata ai baroni: giustizia, grascia ossia politica economica e finanziaria, ordine pubblico e protezione dei vassalli". È possibile constatare d’acchito la debolezza istituzionale della figura del governatore, inversamente proporzionale alla tracotante egemonia dell’Agente feudale (e mandante del delitto) Giuseppe Cocci, originario di Firenze. Per consuetudine gli agenti (e fattori generali) del feudo di Caiazzo furono tutti toscani e in particolare fiorentini, evidentemente grazie a quel legame di fiducia che si stabilisce tra conterranei. La remissività del governatore può spiegarsi con le sapide parole di Giuseppe Maria Galanti3: "Il governatore è un ministro esecutore delle volontà del barone (feudatario) e del suo Agente. Senza tale virtù non avrà più governo. Le corti locali per lo più non hanno archivio, non hanno carceri o le hanno cattive, non hanno armigeri, per cui sono senza forza. I baroni che li hanno sogliono prescegliere la gente inquisita e ribalda". Di gente ribalda, come i bravi di manzoniana memoria, nelle pagine appresso se n’incontrerà molta. Giuseppe Cocci agiva di testa sua, esercitando le proprie funzioni con pugno di ferro per ricavarne vantaggi economici e acquisire maggior fiducia nei confronti del padrone. Molte persone languivano, non avendo la forza di reagire. Certamente il marchese Corsi, abitando lontano, non era a conoscenza di tante cose. Lo possiamo considerare magnanimo quando vedremo che alcuni caiatini – recatisi a Firenze per avere giustizia – erano da lui bene accolti, rifocillati e muniti di denaro per il viaggio di ritorno. Le lamentele dei familiari della vittima ebbero effetto, poiché il marchese mandò via l’Agente Cocci, che riparò nel feudo di Formicola, sotto la protezione della famiglia Carafa . L’omicida Pietro Antonio della Selva si diede alla macchia, trovò poi rifugio nella chiesa dell’Annunziata in Caiazzo, dove visse mendicando . Per le leggi di quel tempo i luoghi sacri erano inaccessibili ai gendarmi. Dopo un certo periodo si rese di nuovo latitante e se ne persero le tracce. Il secondo racconto (Cronaca d’una fuga) nasce da una breve relazione sulle rodomontate di tre furfanti.

CRONACA D’UN OMICIDIO

1. Il delitto "Corso"


Verso mezzogiorno di giovedì 17 maggio 1736, a Caiazzo, il barbiere Giacinto Corso, avendo smesso di lavorare, si portò nel laboratorio dell’armaiolo Luca Bottalagana per prendere in prestito una carabina perfettamente accomodata dal maestro Alessio d’Audio. Col fucile a tracolla, Giacinto Corso passeggiava assaporando il tepore dell’aria primaverile, fino a quando giunse davanti alla casa di Carlo de Simone , vicino alla piazza principale del paese, dove sorge la cattedrale. Nel frattempo, Ascanio Giorno, Stefano della Rocca e il temibile uomo d’arme Pietro Antonio della Selva parlavano con gusto nella bottega del calzolaio Tommaso di Leo, distante pochi passi dalla casa di Carlo de Simone4. Anche all’epoca era d’uso intrattenersi negli esercizi artigianali a discorrere del più e del meno, commentando i fatti quotidiani degni di nota. Tuttavia, non prestando più attenzione alle parole degli amici, anzi rapito da pensieri più cogenti, Pietro Antonio della Selva si affacciò alla porta, incrociando in tralice lo sguardo di Giacinto Corso, con cui pochi giorni prima aveva avuto degli screzi. Pietro Antonio, accomiatandosi dai compagni e consigliando a Stefano della Rocca di starsene tranquillo, si avvicinò a Giacinto Corso e iniziò a conversare amichevolmente, adoperando un fare molto garbato, ma allo stesso tempo deciso. Il fiero Pietro Antonio, con calma e affabilità, disse a Giacinto di starsene calmo e di deporre l’arma. Quest’ultimo, colto alla sprovvista, gli rispose bruscamente: «Tu che vuoi?». Poi, senza proferire oltre, andò a riportare la carabina da Luca Bottalagana. Tempestivamente Pietro Antonio, rimuginando sull’accaduto, si recò presso la Corte feudale, nel castello di Caiazzo, ove il governatore don Carlo Donadio stava giocando a carte con alcune persone. Ancora trafelato per l’improvvisa corsa, Pietro Antonio descrisse con un’ipotiposi al governatore l’incontro appena avuto con Giacinto Corso. Inoltre, preoccupato che Giacinto girasse armato per le vie del centro, chiese al governatore licenza per poterlo subito carcerare. Il governatore, volendo raccogliere tutti gli elementi probanti per avere un quadro più chiaro, gli domandò se sapeva a chi appartenesse la carabina che Giacinto Corso portava con sé. Prontamente Pietro Antonio gli rispose che il fucile era di Luca Bottalagana.
Il governatore allora, valutando le eventualità, licenziò Pietro Antonio ordinandogli, per il momento, di non arrestare Giacinto. Poi subito mandò a chiamare Luca Bottalagana, da cui si fece dare la carabina. Accomiatatosi dal governatore, Pietro Antonio s’incamminò nuovamente verso il laboratorio di Tommaso di Leo ma, poco prima d’arrivarvi, incontrò Giulia Coscia e Giovannella della Rocca. Giulia Coscia era la madre di Stefano e Giovannella della Rocca. I tre si misero a parlare segretamente, senza che si potesse sentire cosa dicessero. Ascanio Giorno, che si trovava sull’uscio del negozio appartenente a Tommaso di Leo, li osservava mentre discutevano animatamente, e del loro colloquio solamente intese che Pietro Antonio diceva queste parole: «Mo’ jatevenne, che ci penso io!». Ciò detto, i tre si separarono.
Trascorse alcune ore, intorno alle quattro del pomeriggio, Pietro Antonio s’incontrò con Giacinto Corso appena fuori Porta Vetere, mentre quest’ultimo, senz’armi, stava alzando da terra un certo tipo di legname, chiamato in città cerola (quercia). Accortosi della presenza di Pietro Antonio, Giacinto gli disse: «Compare, lassame dirti una parola; m’hai fatto una mala azione d’accusarmi al Governatore».
Pietro Antonio gli rispose: «Tu sai che ti voglio bene; l’aggio fatto per l’utile tuo!».
Poi passeggiarono insieme, discorrendo amichevolmente. Giunti vicino alla taverna che sta nel largo di Porta Vetere, Pietro Antonio, con la mano sinistra afferrò per petto Giacinto e, con la destra, cacciandosi dalla tasca dei calzoni un appuntito coltello di ferro, l’impugnò portandoglielo alla gola. Dunque, tenendo fermo Giacinto con salda presa, gli disse di non muoversi perché voleva solo perquisirlo, per vedere se portasse armi proibite. Nello stesso tempo Pietro Antonio chiamò Giuseppe Russo (un suo cugino) affinché rovistasse addosso a Giacinto. Il povero Giacinto non voleva per nulla al mondo che Giuseppe gli mettesse le mani addosso. Allora Pietro Antonio replicò: «Già che è questo, andiamo alla taverna!».
Tirato a viva forza verso la taverna, Giacinto afferrò il polso di Pietro Antonio, nonostante quest’ultimo gli tenesse sempre puntato il coltello alla gola. Di scatto, con una mossa improvvisa, Pietro Antonio lasciò stare Giacinto. Rimesso il coltello in tasca, si tirò indietro di due o tre passi, e, avendo puntato la carabina (di cui andava armato), sparò un’archibugiata (carica a palle) contro Giacinto. Il colpo lo attraversò completamente, da parte a parte, uscendo dal lato sinistro. A causa della terribile ferita, Giacinto Corso cadde esanime a terra. Posto il cadavere sopra una sedia di paglia, fu da alcune persone portato in casa della madre. La mattina seguente fu sepolto nella chiesa cattedrale di Caiazzo.
Pietro Antonio, non appena commesso l’omicidio, andò immediatamente nella Masseria di Cameralonga, distante da Caiazzo circa un miglio. Ivi giunto, trovò Giovannella Cafarano, moglie di suo cugino Giuseppe Russo, affittuario della masseria. A lei, l’intrepido Pietro Antonio riferì d’aver ucciso Giacinto Corso. Messasi la donna a gridare, Pietro Antonio le disse di stare calma. Ripreso fiato e placati i nervi, le affidò quindi un messaggio da consegnare alla propria madre. Quando avesse visto la donna, Giovannella avrebbe dovuto dirle che lui “se ne andava alla Terra dell’Amorosi”, distante da Caiazzo circa cinque miglia.
Invece, sentendosi smarrito, Pietro Antonio andò al castello di Caiazzo, che poteva essere circa un’ora di notte (le 19.00). Vide davanti al portone Giambattista d’Avella (uno degli armigeri di Giuseppe Cocci) che non volle farlo entrare, poiché ormai tutti sapevano dell’efferato omicidio. Allora Pietro Antonio scappò subito via verso la Terra dell’Amorosi.
L’Agente e Fattore generale Giuseppe Cocci, che quel giorno si trovava a Dugenta per assistere alla fabbricazione di un granaio, circa alle due ore di notte (le 20.00), ritornato a casa in Caiazzo, chiamò a sé Tiberio Appietto , suo fattore di campagna. A lui disse di aver saputo che Pietro Antonio della Selva aveva ucciso Giacinto Corso, e non aggiunse altro.
La mattina dopo gli disse (segretamente, da solo a solo) che Pietro Antonio se ne stava nella Terra dell’Amorosi e gli diede dieci ducati da portargli il più presto possibile. Si raccomandò di dire a Pietro Antonio che “se ne andasse da questo Regno perché, una volta preso, sarebbe stato ucciso”.
Tiberio Appietto, senza por tempo in mezzo, andò ad Alvignanello, paese in cui era nato e risiedeva. Poi, attraverso suo fratello Marzio Appietto , mandò a dire a Pietro Antonio di avvicinarsi al fiume Volturno, poco distante dalla Terra dell’Amorosi, “perché doveva conferirgli cose di suo utile”. Pietro Antonio giunse in prossimità del fiume e Tiberio consegnò i dieci ducati, riferendogli anche l’imbasciata del Cocci, ovvero di andarsene dal Regno, altrimenti sarebbe stato di sicuro impiccato.
Dopo alcuni giorni, Pietro Antonio ritornò a Caiazzo, ove (armato di carabina) si mise a camminare liberamente, di giorno e di notte, per le pubbliche strade, alcune volte accompagnandosi con altri due armigeri, Aniello Maturo e Crescenzo Cacchillo. Giuseppe Cocci giammai lo fece carcerare. Pietro Antonio si faceva vedere alcune volte rifugiato dentro l’ospedale Ave Gratia Plena di Caiazzo. Dopo quattro o cinque mesi dall’omicidio, aveva trovato riparo in un eremitaggio sito nel bosco del castello d’Alvignanello .
Un bel giorno Giuseppe Cocci, unitamente con Agostino Mennillo (suo servitore), s’incamminò in direzione del romitaggio e, giunto in un luogo chiamato ‘Sopra le Vigne di Caiazzo’, fece trattenere colà Agostino, dicendogli di non muoversi per nessun motivo. Giuseppe Cocci fece intendere di voler andare da solo alla Masseria della Serola. Dopo circa un’ora ritornò, proprio nel momento in cui Agostino stava parlando con Brigida Paterno (madre di Pietro Antonio della Selva), che portava un po’ di pane al proprio figlio. Andatasene la donna per la sua strada, Giuseppe Cocci domandò al servitore se lei stesse portando il pane al figlio. Da quest’indizio Agostino dedusse che il suo padrone era andato a parlare con Pietro Antonio. Il nesso causale non era sfuggito al sagace Agostino Mennillo. Dopo un po’ che era stato licenziato (per una ponderata decisione del marchese Corsi) dalla sua carica, Giuseppe Cocci consegnò dieci carlini ad Agostino Mennillo, dicendogli di portarsi alla Masseria delle Monache in Caiazzo, ove avrebbe incontrato Pietro Antonio della Selva, cui doveva consegnare il denaro. Difatti, andando in detta masseria, Agostino vide Pietro Antonio (assieme a Crescenzo Cacchillo e Aniello Maturo) cui diede i dieci carlini per l’acquavite, così come voleva il Cocci.
Esercitando Giuseppe Cocci la carica di Agente e Fattore generale di tutto lo Stato di Caiazzo per lo spazio temporale di circa diciott’anni, teneva l’ordine dall’illustrissimo marchese Corsi (utile padrone di detto Stato) di dare annualmente quattro tomoli di grano sotto il titolo di carità a Domenico Corso, padre di Giacinto. Giuseppe Cocci glieli elargì per alcuni anni, poi non più, per la qual cosa Giacinto era rimasto assai addolorato. Giacinto Corso era rimasto del pari dispiaciuto perché verso gli ultimi mesi del 1735, essendogli state tirate due schioppettate da Giuseppe Montrone (altrimenti conosciuto come Peppo Stoppa), Giuseppe Cocci lasciava passeggiare il Montrone senza farlo carcerare. Per tutte queste cose e perché Giuseppe Cocci teneva una lunga e scandalosa pratica carnale con Giulia Coscia, tanto da farla abitare in una casa (del marchese Corsi) sita vicino alla piazza principale di Caiazzo, Giacinto prese la decisione d’andare ad accusarlo in Firenze direttamente davanti all’illustrissimo marchese Corsi. Il povero Giacinto dettò al reverendo padre Giuseppe Forgione (dei Chierici Regolari Minori), religioso nel convento della Pietrasanta in Napoli , un dettagliatissimo memoriale. Nei mesi di gennaio e febbraio 1736, Giacinto stette a Firenze, ospite del marchese Corsi, informandolo di tutte le cattive abitudini e delle turpi azioni di Giuseppe Cocci. Tornato a Caiazzo nel mese di marzo, Giacinto sparlò bravamente contro Giuseppe Cocci e Giulia Coscia. Si vantò perfino che l’illustre Marchese, dopo averlo accolto generosamente, gli promise che avrebbe castigato i due concubinari. Informato di tutto, Giuseppe Cocci ne ebbe comprensibilmente un gran dispiacere, dimostrandosi odioso contro Giacinto e ancor di più nei confronti di padre Giuseppe Forgione, perché era proprio quest’ultimo ad aver scritto materialmente il memoriale.
Giuseppe Cocci fece ammazzare con premeditazione Giacinto Corso per i sopraddetti moventi. Si porta anche a conoscenza che nell’omicidio Corso sono complici Stefano della Rocca e Giulia Coscia (madre e figlio). Perché tre o quattro giorni prima del delitto, Stefano della Rocca fu maltrattato da Giacinto Corso dentro la bottega di Francesco Pagliuca (alias Trezza), e subì un affronto anche per strada a Caiazzo. In quell’occasione i due litiganti furono subito divisi da monsignor vescovo di detta città, Sua Eccellenza Costantino Vigilante5. Per di più, circa le ore ventiquattro (le 18.00) del giorno in cui avvenne l’omicidio, Stefano della Rocca, alla presenza di Angela Ferraro e di Giuseppe Sgueglia, asserì: «Bella la fine che Pietro Antonio ha fatto fare a Giacinto. Ben gli sta!».
Il giorno dopo la morte di Giacinto Corso, in una conversazione tra Stefano Aversano e Stefano della Rocca, quest’ultimo si lamentò dicendo che Giacinto aveva minacciato finanche di ucciderlo . Dimostrò d’aver avuto gusto e soddisfazione della sua morte, affermando che se non fosse stato ucciso allora, lo sarebbe stato quanto prima.

2. Verso il processo. La madre e le sorelle di Giacinto Corso scrivono a Sua Maestà il Re Carlo III di Borbone

La morte di Giacinto Corso suscitò grande scalpore nell’intero comprensorio caiatino e non solo. Seguì un processo, molto sentito e partecipato, nei cui atti si snoda la vita d’un microcosmo dell’Italia meridionale nel Settecento . Le fasi processuali (incluse le testimonianze e le lettere di discolpa), che sono state filologicamente rimontate, offrono uno spaccato davvero interessante per conoscere la vita di quell’epoca, tra cangianti umori e amori proibiti.

SRM [Sovrana Regia Maestà]

Signore,

La vedova Teresa Morrone e le tre figlie vergini in capillis6, prostrate umilmente ai piedi della Maestà Vostra, fanno presente che, più di tre anni addietro, fu loro ucciso il carissimo familiare Giacinto Corso su mandato di Giuseppe Cocci, ex Agente generale del marchese Corsi nella città di Caiazzo. Le supplicanti, circa otto mesi or sono, ricorsero ai piedi della Maestà Vostra per fare elezione di foro nella Gran Corte della Vicaria Criminale. Pregarono la Maestà Vostra di rimettere la causa alla Gran Corte della Vicaria per avere giustizia, poiché Giuseppe Cocci nel tribunale di campagna è prepotente, e se ne sono visti gli effetti. Primieramente, quando successe l’omicidio, un ufficiale giudiziario del tribunale di campagna andato sul posto constatò solamente il delitto in persona del mandatario, occultando il mandato del Cocci. In secondo luogo, benché al tribunale di campagna sia noto il delitto, proditoriamente commesso di mezzogiorno da Pietro Antonio della Selva, il medesimo da più di tre anni si trova semplicemente citato e passeggia pubblicamente per Caiazzo, minacciando le povere supplicanti. Terzo, le povere supplicanti già ricorsero otto mesi fa ai piedi della Maestà Vostra, che ingiunse al commissario del tribunale (di campagna) di portarsi a Caiazzo per prendere informazioni extragiudiziali . Il commissario di campagna aspettò molti mesi prima di eseguire gli ordini di Vostra Maestà. Essendosi poi portato in Caiazzo, dovette per forza accertare il mandato di Giuseppe Cocci. Tuttavia il commissario brigò perché le supplicanti eleggessero come proprio foro il tribunale di campagna. Vostra Maestà, di nuovo implorata dalle supplicanti, ordinò al tribunale di campagna di trasmettere gli atti alla Camera Reale , che aveva il compito di stabilire a quale foro spettasse la causa. Però il tribunale di campagna non curò giammai di obbedire a qualsiasi deliberazione di sorta. Onde, le supplicanti si sono gettate ultimamente ai piedi del segretario di Vostra Maestà, non solo domandando giustizia per la morte del carissimo Giacinto Corso, ma anche perché Giuseppe Cocci, informato appieno di tutti questi ricorsi, minaccia di fare ammazzare le povere donne in modo più spietato di quanto non abbia fatto con il loro familiare, se non gli faranno la remissione. Lo stesso va facendo il mandatario (Pietro Antonio della Selva). Onde Vostra Maestà con dispaccio dell’undici dello scorso luglio [1739] si degnò ordinare al detto tribunale di campagna la trasmissione degli atti, e che si fosse assicurato della persona del Cocci; il quale dispaccio l’ha fatto vedere lo stesso commissario (del tribunale) di campagna. Però dall’11 luglio [1739] fin a oggi non c’è stata la trasmissione degli atti, né tantomeno è avvenuta la carcerazione del Cocci, ma eziandio sono moltiplicate le minacce contro le povere supplicanti. Il Cocci va liberamente camminando, ed è venuto anche qui in Napoli all’alloggiamento ‘Tre Re’ per incutere timore alle supplicanti. Nel tempo in cui il commissario (del tribunale) di campagna si trovava a Napoli con l’ordine di carcerazione per il Cocci, le supplicanti (per gran timore) erano costrette a stare lontane da Caiazzo. Si trovano per ora in questa città di Napoli, attendendo gli effetti della giustizia che promana da Vostra Maestà. Nel frattempo sono costrette ad andar elemosinando (per le strade e davanti alle chiese) e a mangiare nei monasteri per non potersi ritirare nella loro patria. Sire, ci sia lecito di parlare ai piedi della Maestà Vostra in tutta libertà, come davanti a un principe o a un padre. Ora Giuseppe Cocci si trova al servizio dell’illustre Principe di Colubrano , per la cui prepotenza non solo il tribunale di campagna non esegue l’ordine di Vostra Maestà, ma le supplicanti medesime corrono evidente pericolo di vita. È noto alla Maestà Vostra che il Cocci è fiorentino e forestiero, estraneo a questo Regno, né ha qui beni, onde dopo che avrà fatto qualche insulto a esse povere supplicanti se ne fuggirà nella sua patria. Perciò le supplicanti ricorrono ai piedi della Maestà Vostra, e con le braccia aperte e riverenti La pregano di ordinare l’arresto di Giuseppe Cocci, ut Deus vult.
Io, dottor Don Niccolò Vincenti , in nome delle supplicanti.

Post Scriptum

Il dottor Niccolò Vincenti stilò per conto della madre e delle sorelle di Giacinto Corso una petizione da presentare al re Carlo III di Borbone. Poi inviò una copia della petizione anche a Giacomo Antonio Pasanisi, Agente generale del marchese Antonio Corsi in Napoli. Il Vincenti annotò pure alcune sintomatiche righe.

Amico e signore mio,
Ho consegnato di persona copia dell’accluso memoriale a Bernardo Tanucci7, che ha postillato brevi note. Gli ho parlato alla svelta, ora c’è soltanto da attendere l’esito. Favorisca rimettere al signor marchese la copia del memoriale. Sono otto mesi ormai che quest’affare mi fa sudare, poiché percorro ininterrottamente la via del Palazzo Reale e della Real Camera. Ho dovuto battere tanto questo chiodo per farlo giungere a segno.

3. Giuseppe Cocci compila un promemoria autoassolutorio per il presidente della Gran Corte della Vicaria

Il 20 febbraio 1740 Giuseppe Cocci, sotto accusa quale mandante del brutale omicidio, scrisse un memoriale difensivo (e autoassolutorio) per il presidente della Gran Corte della Vicaria. Più volte Giuseppe Cocci definisce se stesso l’Articolante, poiché dispone in sezioni o argomenti, secondo criteri di logicità e coerenza, delle prove riscontrabili.

1) L’Articolante intende e vuol provare come sia sempre stato timorato di Dio, perbene e caritativo, specialmente con i poveri e con la Santa Chiesa. 2) Intende provare che nell’anno 1735 contrasse gravissima inimicizia col padre Giuseppe Forgione, per le cui male procedure l’Articolante, assieme con l’Università, procurò che gli si desse lo sfratto dalla città di Caiazzo. 3) Intende e vuol provare come padre Forgione tenesse una strettissima amicizia con Teresa Morrone, Caterina e Orsola Corso, rispettivamente madre e sorelle di Giacinto. Dopo che fu ucciso Giacinto Corso, padre Forgione, per vendicarsi dell’Articolante, denunciò quest’ultimo a Sua Maestà, asserendo che fosse il mandante dell’assassinio; 4) Intende e vuol provare come Tiberio Appietto sia nemico capitale dell’Articolante. Poiché fu proprio Tiberio Appietto che, nel mese di aprile 1738, fece sequestrare dalla Corte di Caiazzo 170 capre e 68 pecore che l’Articolante aveva mandato a prendere nell’Università di San Giovanni e Paolo. Tuttavia l’Articolante fece prelevare il gregge dal mastro d’atti8 della Corte di Formicola, delegato dalla Gran Corte della Vicaria; nel trasporto, l’Articolante fece passare capre e pecore nel mezzo della città di Caiazzo; vedendo la qual cosa, Tiberio Appietto si morse le dita e minacciò l’Articolante; 5) Intende e vuol provare come Pietro Antonio della Selva si decise a uccidere Giacinto Corso poiché quest’ultimo, pochi mesi prima, lo aveva ferito per un nonnulla a colpi di stiletto. Nella rissa, se non fossero accorsi Bartolomeo Di Giglio e Giuseppe Sgueglia, Pietro Antonio sarebbe rimasto ucciso da Giacinto. Ciò nondimeno, Pietro Antonio riportò delle ferite, una nella coscia l’altra alla mano, essendo poi medicato da mastro Nicola Giannelli, barbiere e pratico in chirurgia; 6) Giacinto Corso ha più volte disarmato Pietro Antonio. Quando i due s’incontravano, di giorno o di notte, Giacinto con minacce (e con atti temerari) faceva mostra d’impugnare un’arma in modo che Pietro Antonio indietreggiasse. Molte persone hanno potuto ascoltare che Pietro Antonio talvolta ha minacciato e giurato di voler uccidere Giacinto. 7) Quindici giorni prima dell’omicidio, circa alle ore due di notte (le 20.00), Giacinto se ne stava vicino alla casa di Stefano Morello, quando andò a prendere il fucile, essendosi avveduto che passava di lì Pietro Antonio. Poi Giacinto tirò una schioppettata a Pietro Antonio che, non essendo stato colpito, si mise in fuga per il vicolo sotto la chiesa di San Francesco. Giacinto gli corse appresso e sparò di nuovo, ma nemmeno stavolta il colpo andò a segno. 8) Le cause della profonda inimicizia tra Pietro Antonio e Giacinto erano pubbliche in tutta la città di Caiazzo. 9) Giacinto era un giovane scapestrato, di pessimi costumi, e di mala coscienza, tanto che più volte ha bastonato la madre. Giacinto maltrattava tutte le genti che incontrava passeggiando di notte per la città. Non è stato mai punito per tali eccessi perché era sempre spalleggiato da padre Forgione. 10) Giacinto era nemico di tutti i soldati, che l’avrebbero da tanto tempo ammazzato se l’Articolante non li avesse tenuti a freno. 11) Eseguito l’omicidio, Pietro Antonio della Selva partì da Caiazzo e si rifugiò, di notte, ad Amorosi, in casa del magnifico Sebastiano Maturo (erario9 di detta Terra) cui raccontò il fatto. Sentendo il racconto, l’erario disse a Pietro Antonio di non trattenersi in quella Terra e di andarsene immantinente a Benevento. Pertanto, la mattina dopo Pietro Antonio chiese licenza a Sebastiano Maturo, dicendo che partiva per Bonea, vicino a Benevento. 12) Il sabato seguente (cioè due giorni dopo l’omicidio) trovandosi in Dugenta, l’Articolante ordinò a Crescenzo Cacchillo che andasse da detto erario Sebastiano Maturo, nella Terra dell’Amorosi, a chiedergli il canone d’affitto del guado del fiume Volturno. In tale occasione Cacchillo domandò a Sebastiano Maturo se in quella Terra si trovasse Pietro Antonio della Selva. Sebastiano Maturo rispose che nel giorno dell’omicidio Pietro Antonio della Selva si era presentato, circa le ore due di notte (le 20.00), nella sua casa, ma che la mattina seguente era subito ripartito per la Terra di Bonea, né da allora l’aveva più veduto. 13) In capo a due mesi Pietro Antonio tornò nella Terra dell’Amorosi e qui seppe che a Caiazzo stava uno scrivano del tribunale di campagna per prendere informazioni proprio su di lui. Pietro Antonio si portò di nuovo dall’erario Sebastiano Maturo, domandando protezione acciò non l’avesse fatto carcerare. Pietro Antonio pianse a tal punto che l’erario si mosse a pietà. Mosso a compassione, lo fece accompagnare da Nicola Mastrogiacomo nei dintorni di Roma. 14) Pietro Antonio, per il tempo che è stato rifugiato dentro l’ospedale Ave Gratia Plena, è andato camminando per tutta Caiazzo, e solamente nel mese di marzo 1739 si sparse la voce che l’omicidio l’aveva commesso d’ordine e mandato dell’Articolante. Interrogato su ciò [sul presunto mandato] dal prete Don Francesco Sparano, da Lorenzo di Vivo e dal magnifico Lorenzo Bellangiolo, Pietro Antonio rispose: «Mi sia testimone Iddio quando dico che l’omicidio non me l’ha fatto commettere Giuseppe Cocci! Se così fosse stato, io ora non vivrei rifugiato in un ospedale, né mi sarei ridotto a morire di fame! Invece mi sarei aggiustato, e ora avrei denari». 15) Intende e vuol provare come più volte Brigida Paterno (madre di Pietro Antonio della Selva) sia stata subornata da padre Giuseppe Forgione, da Teresa Morrone e da Caterina, Angela e Orsola Corso, acciò avesse fatto dire a suo figlio che l’omicidio l’aveva commesso d’ordine e mandato dell’Articolante, avendole promesso grandi somme di denaro. 16) Padre Forgione si è financo recato in Firenze ad accusare l’Articolante davanti al marchese Corsi. 17) L’Articolante è innocentissimo. Ove mai fosse stato il mandante dell’omicidio, non avrebbe permesso che detto Pietro Antonio si fosse ridotto a perire di fame. Anzi l’avrebbe mandato fuori dal Regno o chiamato a Formicola dove, per essere l’Articolante Agente generale, l’avrebbe fatto liberamente camminare. 18) Intende e vuol provare (com’è pubblica voce e fama tanto a Caiazzo quanto in Santa Maria , nella Terra dell’Amorosi e in altri posti circonvicini) che quanto viene addebitato all’Articolante altro non è che una mera e manifesta impostura, orditagli contro da padre Forgione, da Teresa Morrone, da Caterina, Angela e Orsola Corso. 19) L’Articolante giammai si è mescolato nel Governo Politico dello Stato di Caiazzo, né si è occupato di far carcerare o scarcerare i delinquenti. Tal prerogativa appartiene al governatore, che deve invigilare e castigare i rei.

4. Supplica di Giuseppe Cocci a monsignor Costantino Vigilante

Il 21 marzo 1740 Giuseppe Cocci, rinchiuso nelle carceri della Vicaria in Napoli, scrisse una supplica al vescovo di Caiazzo Costantino Vigilante, implorandolo di permettere agli ecclesiastici di testimoniare in un processo da celebrare in un foro laico. I preti caiatini avrebbero dovuto attestare l’estraneità del Cocci a tutti gli addebiti contestatigli.

Giuseppe Cocci, prostrato ai piedi di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima, umilmente espone che per acclarare la sua innocenza in merito al delitto che gli s’imputa (di mandante nell’omicidio in persona di Giacinto Corso) ha presentato molte prove in difesa, testimoniabili dai reverendi canonici Don Gerolamo Bolognese, Don Salvatore Montrone, Don Antonio Landolfo, Don Francesco Santoro, Don Carlo Iannucci, Don Francesco Sparano, Don Pietro Leone, Don Carlo Ferrazzano, Don Stefano Sabetta e Don Stefano Marocco. A costoro è nota l’innocenza del supplicante. Poiché le prove a difesa non contengono nulla che sia proibito dai sacri canoni, il supplicante desidera che Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima dia ai predetti ecclesiastici la licenza di poter deporre nel Foro laicale la verità di quel che sanno.
Gli articoli sono i seguenti: 1) Intende e vuol provare esso Articolante com’è persona perbene, timorata di Dio e caritatevole, specialmente con la Chiesa. 2) Intende provare come Pietro Antonio della Selva fosse un giovane accorto, sollecito e puntuale nel fare imbasciate. Per questo effetto l’Articolante, che di continuo aveva bisogno di corrieri, si serviva sempre di Pietro Antonio. 3) Una notte Giacinto Corso fece ritornare indietro il reverendo Don Stefano Marocco, che andava a dare l’estrema unzione a un moribondo. 4) Intende e vuol provare come Pietro Antonio della Selva per sette mesi (da maggio a novembre dell’anno 1736) si rifugiò nella campagna di Roma. Poi ritornò a Caiazzo e riparò nell’ospedale Ave Gratia Plena, dove si è per lo più trattenuto fino al mese di settembre del trascorso anno 1739. 5) L’Articolante intende e vuol provare che è innocentissimo in detto omicidio. Se fosse stato il mandante, non avrebbe mai permesso che Pietro Antonio vivesse stentatamente a Caiazzo, ma l’avrebbe fatto venire con sé nello Stato di Formicola, proteggendolo. 6) Intende e vuol provare (come tutti sanno a Caiazzo, Capua, Santa Maria , Amorosi) che le malefatte attribuitegli non sono assolutamente veritiere. 

5. Dichiarazione dei testimoni (a favore di Giuseppe Cocci)

L’11 aprile 1740 nella ‘Taverna Nova’ di Pietramala , cinque caiatini (il magnifico Francesco de Angelis, il magnifico Angiolo Matarazzo, Nicola Iannuccio, Stefano Sparano e Angelo Rocco) scrissero di comune accordo uno spontaneo attestato a beneficio di Giuseppe Cocci .
Costoro sostenevano di aver parlato, dentro la chiesa dell’Annunziata, con Pietro Antonio della Selva, nel tempo in cui stava a Caiazzo, per l’esattezza il 3 febbraio 1739, giorno di San Biagio. Gli avevano chiesto se avesse ammazzato Giacinto Corso su istigazione di Giuseppe Cocci. Pietro Antonio della Selva, giurando sul crocefisso, rispose che aveva ucciso Giacinto Corso poiché più volte da questi aveva ricevuto maltrattamenti e ferite, ma il Cocci era innocente. Per di più, Angiolo Matarazzo affermò che il giorno dell’omicidio, Giacinto Corso passò davanti alla sua bottega con una carabina, e subito dopo si seppe che fu ammazzato.

6. Un’epistola di Giuseppe Cocci al marchese Antonio Corsi

Imprigionato a Napoli nelle carceri della Gran Corte della Vicaria, Giuseppe Cocci scrisse una lettera all’illustrissimo ed eccellentissimo marchese Antonio Corsi. L’ex Agente generale dello Stato di Caiazzo viveva in una bolgia infernale.

Giuseppe Cocci, prostrato ai piedi dell’Eccellenza Vostra, con vive suppliche umilmente Le rappresenta come si trovi rinchiuso nelle carceri della Vicaria di Napoli da ottobre del passato anno [1739], accagionato di mandato d’omicidio; e dai suoi malevoli si è fatto ogni sforzo per farlo ritrovare intinto di tal nero misfatto; ma, Eccellentissimo Signore, il povero supplicante è davanti a Dio innocente di tal colpa. La supplica umilmente, come a Dio, di concedergli il perdono per le proprie colpe e di elargire quella clemenza che suole largamente distribuire Dio ai peccatori. La prega di aiutarlo a sollevarsi da tale oppressione, perché il solo nome di Sua Eccellenza può essere di molto aiuto al misero supplicante, che si trova distrutto negli averi, nella salute e dagli anni. Non avendo neanche finito, i suoi malevoli persecutori, di pubblicare che esso umile supplicante sia persona facoltosa, quando invece si è ridotto in uno stato di estrema indigenza, bisognoso di pane. Se l’Eccellenza Vostra si degnerà di farlo uscire dalle carceri, si porterà subito ai suoi piedi, e La supplicherà a dargli un modo per campare i pochi altri giorni di sua misera vita, mentre non sdegnerà, anzi avrà a gloria, esso supplicante, servire l’Eccellenza Vostra anche da facchino, se si degnerà di fargli tale grazia. L’Eccellenza Vostra si è degnata rimirare esso supplicante già una volta con occhio benigno, e se il peccatore da Dio sdegnato ricorre a Dio pietoso, esso supplicante impetra umilmente lo stesso perdono dall’Eccellenza Vostra e lo spera fermamente perché sa il buon cuore dell’Eccellenza Vostra. Esso supplicante si propone di voler vivere e morire sempre da servo ubbidientissimo e fedele dell’Eccellenza Vostra.
Ho distrutto il frutto dei miei onorati sedici anni al suo servizio a Caiazzo. Adesso, qui in questo baratro infernale di viventi, non ho nessuno, se non l’aiuto di Dio e quello di Vostra Eccellenza. Lo giuro su Dio, sono innocentissimo, facendo noto all’Eccellenza Vostra che lo scrivano fiscale della causa mia si è venduto, comportandosi peggio di quello che fecero i Giudei a Nostro Signore Gesù Cristo. Non mancherà un giorno a Vostra Eccellenza di sapere il tutto con sincerità e chiarezza da persone molto affidabili. L’Eccellenza Vostra abbia pietà di questo povero supplicante.
Umilissimo e obbedientissimo servitore
Giuseppe Cocci

7. Querimonia delle familiari di Giacinto Corso per il marchese di Caiazzo

La madre e le sorelle di Giacinto Corso, cercando giustizia a tutti i costi, stilarono una breve ma efficace lettera per il marchese di Caiazzo. Le donne, vittime di una persecuzione fiscale, portavano alla luce circostanziati episodi di malgoverno cittadino, facendo precise accuse con tanto di nomi e cognomi. Molto verosimilmente la missiva ricade nel 1740.

Teresa Morrone , con le figlie Caterina, Orsola e Angela, schiave e vassalle di Vostra Eccellenza, devotamente La prega di fare giustizia per la disgraziata morte di Giacinto Corso, rispettivamente figlio e fratello. Giacinto, opponendosi alla tirannide di Giuseppe Cocci, ne divenne il bersaglio. Giuseppe Cocci dunque è il mandatario dello sleale e ingrato omicida Pietro Antonio della Selva. Anzi il Cocci non cessa di scagliare fulmini per abbattere e sommergere del tutto l’indebolita nave della speranza e dell’onore delle povere supplicanti. I fautori del Cocci sono davvero numerosi, Eminentissimo Signore, e il primo posto va assegnato a Giovanni de Marco (e a suo figlio Stefano) che, pretendendo di gareggiare col dominio di Vostra Signoria in questa città, con mezzi impropri cerca d’aver l’omaggio dei cittadini. Giovanni e Stefano de Marco, esercitando l’ufficio di esattori fiscali, si adoperarono nei mesi passati col dottor Carlo de Simone e Stefano Tontoli, eletti all’attuale reggimento di questa città, di far tassare le poverissime supplicanti per la somma di ducati quattro; quando, non avendo un’annua rendita che oltrepassasse la somma di ducati sei, le medesime per il passato hanno sempre goduto un’esenzione. Per il triste effetto prodottosi, le supplicanti, nonostante la loro nota miseria, per sfuggire alla calunnia e alle oppressioni furono costrette a ricorrere al supremo tribunale della Sommaria in Napoli, ove fu ordinato che le medesime non avessero a pagare nessuna sorta di tributo. Le medesime chiedono di non essere più molestate e tiranneggiate dalla leonina ferocia dei predetti de Marco, Tontoli e de Simone che, senza timore di Dio né della Corte di Vostra Eccellenza, in spregio delle leggi, tentarono di varcare con violenza la porta della casa delle miserabili per far eseguire forzosamente un indebito pagamento.

8. Memorie raccolte da madre e sorelle di Giacinto Corso per la Gran Corte della Vicaria

La madre e le sorelle di Giacinto Corso, in un dettagliato memoriale per la Gran Corte della Vicaria, esposero in modo analitico le proprie ragioni. Volevano, con prove inoppugnabili, ricusare i testimoni della parte avversa, tutti collegati da un’intricata ragnatela di potere. Nel guardare da una prospettiva sociologica le azioni delle persone a vario titolo coinvolte nelle vicende che si vanno snodando, si scorge un certo familismo amorale, cioè il voler massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare .
Del resto, gli stereotipi comportamentali si ripetono costantemente nel tempo. Lo scritto è databile a febbraio 1740.

Teresa Morrone e le figlie Caterina, Orsola e Angela Corso, abitanti a Caiazzo, in causa contro Giuseppe Cocci, Giulia Coscia e Pietro Antonio della Selva (accusati d’omicidio in persona di Giacinto Corso), attestano con convinzione quanto segue: 1) Intendono e vogliono provare esse Articolanti come il reverendo padre Giuseppe Forgione, religioso della chiesa della Pietrasanta in Napoli, è nativo, e fra i principali cittadini, di Caiazzo. Padre Giuseppe è un galantuomo e un sacerdote degno di riguardo, stima e decoro, ma anche di ottimi costumi e di somma bontà. È confessore, predicatore, padre graduato e vecchio nel suo Ordine, uomo di grande scienza e dottrina. Possedendo padre Giuseppe, assieme alle sue sorelle e cognati, una quantità di beni e di averi nel distretto e nei termini di Caiazzo, si è visto sempre (più volte l’anno) venire da Napoli. Dal monastero della Pietrasanta talvolta viene a villeggiare in Caiazzo, ove se ne sta per qualche tempo nella sua casa. Né mai s’intese che padre Giuseppe avesse avuto il bando dalla città di Caiazzo. 2) Intendono e vogliono provare che Giacinto Corso, nella sua breve vita, giammai commise delitto alcuno, né fu inquisito dalla Corte di Caiazzo, né tampoco dal tribunale di campagna o dalla Corte della Vicaria. Giacinto Corso si faceva i fatti suoi, né recava offesa a nessuno, neppure alle persone della sua casa. 3) Intendono e vogliono provare esse Articolanti che, morto Giacinto Corso e fatto seppellire a maggio 1736, immediatamente le medesime si portarono in Napoli per dare a Sua Maestà un primo memoriale accusatorio contro l’uccisore Pietro Antonio della Selva e contro Giuseppe Cocci. Dopo alcuni mesi Teresa, con suo fratello Cesare Morrone, si portò dall’illustrissimo marchese Corsi, in Firenze, a querelare sia Pietro Antonio della Selva sia Giuseppe Cocci. Il marchese Antonio Corsi, dopo averli benevolmente ascoltati, rimandò indietro Teresa e Cesare Morrone, promettendo loro che avrebbe preso dei provvedimenti e fatto esemplare giustizia. Poi, il marchese Corsi rimise tal negozio nelle mani del magnifico Giacomo Antonio Pasanisi, suo Agente generale in Napoli; quest’ultimo però era amico e parzialissimo del Cocci, per cui della cosa non si vide effetto veruno. 4) Intendono e vogliono provare che Pietro Antonio della Selva, dopo essere stato fuggiasco per breve tempo, si ritirò nella città di Caiazzo, in cui camminava liberamente, anche in compagnia degli armigeri del castello. 5) Intendono e vogliono provare che Giuseppe Cocci, durante l’anno 1736 ma anche dopo, faceva in Caiazzo e negli altri feudi dell’illustrissimo marchese Corsi le veci di amministratore e fattore generale. Giuseppe Cocci dominava a Caiazzo e in tutti gli altri feudi del marchese Corsi, impartendo ordini alle Corti locali e anche agli armigeri che stavano a sua disposizione nel castello di Caiazzo, ove abitualmente risiedeva. Comandava di carcerare o scarcerare chiunque volesse, facendo tutti gli atti di dominio e giurisdizione tipici del feudatario. 6) Intendono e vogliono provare le Articolanti ad repulsam partis adversae che Tiberio Appietto, per tutto il mese di dicembre 1738, sempre dimorò nella Terra di Raiano , ove di continuo e quotidianamente aveva a che fare con diverse persone per negozi, industrie e altro, specialmente per l’allevamento di animali negri e di altra sorte. 7) Intendono e vogliono provare similmente come Giovanni de Marco, Berardino Foschi e Stefano Cafararo (tutti e tre di Caiazzo) sono stati sempre amici, parziali e confidenti di Giuseppe Cocci e del magnifico Stefano Manselli, suo compare. 8) Intendono e vogliono provare esse Articolanti che Giovanni de Marco è compare di fonte di Giulia Coscia, concubina di Giuseppe Cocci. Giovanni de Marco ha sempre abitato, come fa tuttora, in una casa di sua proprietà, sita nel vico chiamato Largo del Principe, distante venti passi dalla pubblica piazza (e dal corso principale) della città di Caiazzo. La casa ha tutte le finestre che affacciano dentro il vico e nessuna sulla pubblica piazza. Neppure una finestra affaccia sulla strada grande che conduce in piazza, che è molto indietro a detta casa, standole di fianco. 9) Intendono e vogliono provare che Berardino Foschi è stato sempre dipendente e parziale di Giuseppe Cocci e i due hanno trattato e praticato di continuo. Giuseppe Cocci ha sempre fatto in modo di procacciare al Foschi un qualche impiego o governo. Una volta Giuseppe Cocci, al tempo in cui amministrava lo Stato di Caiazzo, diede a Berardino Foschi il governo della Terra di Melizzano, e quelli delle Terre di Campagnano , Squille e Alvignanello, feudi della Casa del marchese Corsi. I governi furono tutti esercitati sotto la protezione di Giuseppe Cocci. 10) Intendono e vogliono provare che il suddetto Stefano Cafararo è uomo di pessima vita e immondi costumi. Stefano Cafararo, nell’anno 1733, stuprò e ingravidò nello stesso tempo due zitelle vergini di questa città di Caiazzo, la prima Beatrice Di Marzio, al presente sua moglie, la seconda Cristina, figlia di Antonio Milano. È da aggiungere che Stefano Cafararo, costretto con grande forza a sposarsi nel palazzo vescovile di Caiazzo con Beatrice, per alcuni anni non volle vederla né trattarla da moglie, standosene la medesima nella casa di suo padre Andrea Di Marzio. Frattanto Stefano Cafararo seguitò a tener commercio carnale con Cristina Milano per due anni ancora, sin tanto che, col maneggio di alcuni religiosi, fu fatto pentire e ritornò da sua moglie, non prima di aver mandato Cristina in un conservatorio di Napoli, ove al presente si trova. Inoltre, per ragione del suo concubinato, è stato pubblicamente scomunicato al suono di campane per decreto della Corte Vescovile caiatina. Anche da ammogliato ha avuto commerci scandalosi. 11) Intendono e vogliono provare che Nicola Giannelli, barbiere in Caiazzo, è uomo di mala fama e vita a causa dei molti delitti commessi. Condannato al carcere dalla Gran Corte della Vicaria, fuggì dalla prigione del castello di Gaeta, trattenendosi in latitanza nei dintorni di Caiazzo fino a quando fu graziato e ritornò a casa sua. Nicola e suo figlio Tommaso Giannelli sono stati di recente incriminati dalla Gran Corte della Vicaria per un omicidio commesso con colpo d’archibugiata in persona di Giuseppe Sgueglia, della medesima città di Caiazzo. Adesso, mentre il reo confesso Tommaso è nelle carceri della Gran Corte della Vicaria in Napoli, Nicola Giannelli è fuggiasco.

9. Requisitoria contenente precisi atti d’accusa contro Giuseppe Cocci, Giulia Coscia, Stefano della Rocca e Pietro Antonio della Selva

Nella lunga requisitoria , il pubblico ministero della Gran Corte della Vicaria Criminale Don Niccolò Miranda , coadiuvato dallo scrivano fiscale Giorgio Colomeda, con ampie riflessioni di carattere giuridico sostenne con chiarezza l’ortodossia delle ragioni addotte dalle familiari di Giacinto Corso. La narrazione avvince per la logica stringente soprattutto quando si mette in luce la scandalosa vita di Giuseppe Cocci che paradossalmente, da gran furfante spregiudicato, con un rovesciamento parodico della realtà ambiva a esser creduto santo. Effettivamente Niccolò Miranda paragonò Giuseppe Cocci a Ser Ciappelletto che, come scrisse Giovanni Boccaccio , con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto. Il documento, stilato a Napoli il 20 settembre 1740 da Niccolò Miranda (sulle memorie difensive dell’avvocato Niccolò Vincenti ), è pieno di glosse, suddiviso in punti nodali più o meno ampi, e ogni argomento è trattato esaurientemente.

L’omicidio eseguito nella città di Caiazzo in persona di Giacinto Corso, ha portato conseguenze tali che giustamente ci ha mosso di far le parti delle accusatrici nel tribunale della Vicaria contro Giuseppe Cocci, Giulia Coscia, e Stefano della Rocca, che ne diedero il mandato all’uccisore Pietro Antonio della Selva. Giacinto Corso morì soltanto per essere ricorso ai piedi del proprio padrone [il marchese Corsi] a querelarsi dei torti e delle oppressioni di coloro che in seguito l’avrebbero fatto ammazzare. Essendo più volte ricorse a noi quelle sventurate per aiuto e soccorso, non solo ci siamo proposti di liberarle da un così ingiusto timore , ma siamo entrati altresì nell’impegno di far castigare la reità dei responsabili, non per odio che avessimo coi medesimi, ma per utile e vantaggio del pubblico. Affinché possiamo però con qualche ordine incamminarci, fa d’uopo esporre in primo luogo il fatto, e stabilire poscia i fiscali indizi.
La nobilissima famiglia Corsi è tra le più cospicue della famosa città di Firenze, e da più secoli possiede l’antica città di Caiazzo, con molte altre terre e castelli adiacenti che formano uno dei più ragguardevoli Stati del nostro Regno, fertile di viveri, numeroso di vassalli e delizioso per il sito. In questa Illustre famiglia, fin dalla sua prima giovinezza s’introdusse a servire, in qualità di Maestro di Casa, il sacerdote Don Francesco Cocci, che si comportò con maniere così accorte tanto da attirare tutta la benevolenza dei padroni, che ogni cosa riposero nelle sue mani, facendo il tutto da lui governare e dipendere. Nell’anno 1721 cadde in acconcio al detto Don Francesco Cocci introdurre ai servigi di quel suo Illustre Principale il fratello Giuseppe, e avendolo fatto creare Fattore generale dello Stato di Caiazzo, lo fece appunto venire in quella città, quando si trovava a governarla, in qualità di Agente, il sacerdote Don Francesco Maria Verdi. Poco tempo dopo, essendo Don Verdi ritornato a Firenze, il marchese Giovanni Corsi creò Agente e Fattore generale nello Stato di Caiazzo il detto Giuseppe Cocci, che si arrogò tutta la piena facoltà così del Politico come dell’Economico.

a) Il concubinato di Giuseppe Cocci con Giulia Coscia.
Vedendosi in uno stato così eminente, Giuseppe Cocci, che come persona idiota era sol atto alla campagna, conoscendosi libero da ogni soggezione per la lontananza del padrone, contrasse pratica carnale con Giulia Coscia, e l’amò tanto che in mezzo a Caiazzo le fabbricò quattro stanze (in una casa diruta del padrone). Ivi la teneva provveduta di tutto il bisognevole, e ivi faceva egli la sua dimora, corteggiato dai primi gentiluomini del paese, con scandalo di tutto quel pubblico. Lo testimoniano Tommaso di Leo, Giacomo Anziano e Pompeo Alberti.

b) Giuseppe Cocci tiene la protezione di tutti li figli di Giulia Coscia.
Giulia Coscia era vedova e aveva molti figli tra maschi e femmine. Giuseppe Cocci si preoccupò di trovare il marito a ciascuna delle figlie. A un maschio di buona inclinazione, invece, aveva comprato e donato una casa, per farlo ascendere al grado sacerdotale. Purtroppo, Stefano della Rocca, un altro figlio, era arrogante e insolente proprio per la protezione del Cocci e per il favore della madre. Stefano della Rocca aveva posto sottosopra tutta Caiazzo con continui scandali e risse.

c) La causa dell’omicidio.
Tra Stefano della Rocca e Giacinto Corso, essendo d’eguale età, cominciarono delle gare giovanili in cui, per l’accortezza e il valore di detto Giacinto, restava il più delle volte perditore Stefano. Giuseppe Cocci, per mortificare Giacinto, interruppe la corresponsione di alcuni tomoli di grano che ogn’anno, per titolo d’elemosina, l’illustre Marchese di Caiazzo faceva dare a Domenico Corso, padre di Giacinto. Oltre a ciò, nell’anno 1735, da Giuseppe Montrone (alias Peppo Stoppa) essendo state tirate due archibugiate in vari tempi a Giacinto, quantunque questi si fosse più volte lamentato con Giuseppe Cocci e avesse chiesto giustizia, pur con tutto ciò si vedeva Giuseppe Montrone camminare liberamente per Caiazzo senza esser castigato, anzi tacitamente dal Cocci favorito, dal che reso arrogante, dopo la prima ardì tirare anche una seconda archibugiata contro Giacinto.

d) Il ricorso dell’ucciso al padrone in Firenze.
Vedendosi in tal maniera oppresso, il povero Giacinto ricorse a vari amici acciò avessero scritto in Firenze all’illustre marchese padrone le ingiustizie che dal Cocci egli riceveva, ma nessuno volle dargli aiuto. Era così grande la potenza di Don Francesco Cocci (mastro di casa presso il marchese padrone in Firenze) che non solo erano vani tutti i ricorsi dei poveri vassalli, anzi le lamentele erano rispedite a Giuseppe Cocci, che non tralasciava di vendicarsi di quei miserabili. Giacinto Corso si propose d’andare personalmente ai piedi del padrone, e fattosi scrivere un memoriale da padre Giuseppe Forgione, a febbraio 1736 si portò nella città di Firenze, ove narrò a quell’illustre marchese le ingiustizie del Cocci. Da quel benigno signore fu questo povero vassallo inteso, soccorso di denaro e rimandato indietro con la promessa di consolarlo e di castigare il Cocci e la sua concubina.

e) Sparlata dell’ucciso contro Giuseppe Cocci.
Ritornò Giacinto Corso a Caiazzo e non solo raccontò ai suoi concittadini le cortesie avute dal padrone, ma pubblicamente sparlava, dicendo che in breve sarebbero stati castigati il Cocci e la sua concubina10. Giuseppe Cocci sfogò il proprio disappunto con Francesco Antonio Alberti e Giacomo Anziano. Per di più si mostrava molto odioso nei confronti di Giacinto e di padre Giuseppe Forgione, minacciando di fargliela pagare.

f) Il fatto dell’omicidio.
La mattina del 17 maggio 1736, festività del glorioso San Pasquale, trovandosi Giuseppe Cocci in Dugenta col pretesto di assistere alla fabbrica di un granaio, sotto colore [con l’espediente] di mandare alcune lettere a Caiazzo, ordinò a Pietro Antonio della Selva (suo armigero più confidente) che andasse in detta città e ammazzasse Giacinto Corso. La mattina del 17 maggio Pietro Antonio vi si portò, e ivi s’incontrò con Giovanni Battista Avella (altro armigero). Entrambi andarono al castello (residenza dei ministri del feudatario) ove mangiarono. Pietro Antonio toccò poco cibo e poi si mise a dormire per un po’.

g) Primo incontro dell’uccisore e l’ucciso.
Svegliatosi, Pietro Antonio scese nuovamente nella piazza della città e si pose davanti alla bottega di Tommaso di Leo, in cui si trovava già Stefano della Rocca. Subito dopo Pietro Antonio vide passare Giacinto Corso, armato di carabina. Avendo fatto cenno a Stefano di non muoversi dalla bottega, andò verso Giacinto, che stava sotto la casa del dottor Carlo de Simone, alias lo Spagnuolo. Con amichevoli parole gli disse di stare quieto e di deporre l’arma. Giacinto altro non rispose che queste parole: «Tu che vuoi?». Poi, immediatamente riportò la carabina là dove presa l’aveva. Lo depongono Ascanio Giorno e Tommaso di Leo.

h) Pretesto dell’uccisore per venire alla rissa.
Pietro Antonio della Selva, che andava cercando l’occasione per eseguire quello che gli era stato commesso da Giuseppe Cocci, si portò immediatamente dal governatore, che era allora il magnifico Carlo Donadio, e trovatolo a giuocare tra molti gentiluomini, domandò licenza per carcerare Giacinto Corso, poiché camminava per la città, armato di carabina. Quel saggio e prudentissimo governatore non permise alcun arresto. Informato che la carabina a tracolla di Giacinto Corso era di Luca Bottalagana, la fece restituire a quest’ultimo.

i) Segreto colloquio tra Giulia Coscia e l’uccisore.
Sceso dal castello del governatore, Pietro Antonio, poco prima di arrivare davanti alla bottega del barbiere Tommaso di Leo, incontrò Giulia Coscia. I due si posero a parlare segretamente tra loro. Nel conciliabolo capitò per caso Giovannella della Rocca, figlia di Giulia. Ascanio Giorno solamente intese dire dal detto Pietro Antonio: «Jatevenne, ca ce penz’io».

l) Amichevoli trattamenti tra l’uccisore e l’ucciso.
Pietro Antonio della Selva, nel largo davanti a Porta Vetere, s’incontrò un’altra volta con Giacinto Corso mentre questi stava (senz’armi) alzando da terra un certo legname suo. Poi stettero insieme, passeggiando pian piano da soli e discorrendo amichevolmente. D’improvviso, Pietro Antonio uccise Giacinto. Ne sono testimoni oculari: Ascanio Giorno, Nicola di Palma, Francesco Mancino Ferdinando Bottalagana, Giuseppe Cervella e Stefano Liguoro. Dopo l’omicidio, Giuseppe Cocci non fece pigliare informazione alcuna dalla Corte della città di Caiazzo, ancorché il fatto fosse clamoroso, ma solamente il 18 maggio 1736 furono convocati due cerusici che avevano visto il cadavere di Giacinto Corso. I chirurghi sono stati ascoltati anche dallo scrivano fiscale della Gran Corte della Vicaria.

m) Quando le querelanti ricorsero la prima volta al Re.
Teresa Morrone e figlie ricorsero molte volte ai piedi di Sua Maestà (che Dio guardi) con quattro memoriali composti da padre Giuseppe Forgione, implorando giustizia per la morte di Giacinto. Andarono pure fino a Firenze a domandare riparazione all’illustre marchese Corsi, che promise di castigare l’uccisore di Giacinto.

n) Informazione dello scrivano del regio tribunale di campagna.
Conoscendo Giuseppe Cocci questi ricorsi contro di lui, per occultare la propria reità, dal dottor Giacomo Antonio Pasanisi (Agente generale dell’illustre marchese in Napoli) fece nella Segreteria di giustizia affidare la presente causa al regio tribunale di campagna. Onde, il 26 maggio 1736, con dispaccio della segreteria di Giustizia fu la causa commessa al regio tribunale di campagna, che mandò nella città di Caiazzo lo scrivano Carlo Primigerio a prendere l’informazione di detto omicidio. Carlo Primigerio, preoccupato dal Cocci, non solo occultò il mandato del delitto non interrogando i testimoni, ma raccolse le informazioni dell’omicidio aggiungendo molte attenuanti. Con tutto ciò, il 20 settembre 1737 Pietro Antonio della Selva fu chiamato in giudizio nella regia udienza di campagna, e condannato a pagare una multa di mille ducati a beneficio del fisco regio.

o) Perché stette in silenzio questa causa alcun tempo.
Stette qualche tempo in silenzio questa causa per il grande timore che le povere donne avevano di Giuseppe Cocci, che ancora deteneva la carica di Agente generale dello Stato caiatino, ma nell’anno 1737, essendone stato rimosso dall’illustre marchese Corsi, passò a essere Agente della Baronia di Formicola, poco discosta da Caiazzo. Da Formicola, Giuseppe Cocci si pose terribilmente a minacciare la madre e le sorelle dell’ucciso. Le spaventava con minacce di morte se non avessero ritirato la denuncia. Giuseppe Cocci faceva scorribande nello Stato di Caiazzo, venendoci con gente armata e pigliandone robe a forza. Inquietò la Corte feudale caiatina con farle notificare molte insussistenti provvisioni di Vicaria, e fece altre cose simili, per cui l’illustre marchese Corsi fu costretto a ricorrere ai piedi di Sua Maestà Carlo III, acciò avesse castigato l’alterigia di questo insolente. Non arrendendosi, la madre e le sorelle dell’ucciso, avendo sospetti sul tribunale di campagna, volevano per proprio foro la Gran Corte della Vicaria.

p) Accesso del regio commissario di campagna.
Da Sua Maestà, con dispaccio del 19 gennaio 1739, fu ordinato al regio commissario di campagna di prendere informazioni sopra i capi d’accusa formulati dall’illustre marchese Corsi contro Giuseppe Cocci. Nel frattempo, il re ordinò al commissario di campagna di approfondire le indagini per appurare se l’omicidio perpetrato da Pietro Antonio della Selva fosse stato commissionato da Giuseppe Cocci.

q) Il mandato del Cocci consta al regio commissario.
Portatosi a Caiazzo, il regio commissario di campagna non solo con moltissimi testimoni provò i capi d’accusa proposti dall’illustre marchese Corsi contro Giuseppe Cocci, ma eziandio, presa extragiudiziale informazione, ebbe chiari lumi del suo mandato nell’omicidio, del che poi ne fece relazione alla Maestà Sovrana. Si legge il tutto negli atti dell’accesso del regio commissario (di campagna). Gli atti furono trasmessi alla Gran Corte della Vicaria Criminale che, il 28 settembre 1739, ordinò la carcerazione del Cocci.

r) Impinguazione delle informazioni e preventiva carcerazione del Cocci.
Essendosi portato a Caiazzo, lo scrivano della Gran Corte della Vicaria Criminale Giorgio Colomeda, carcerò Giuseppe Cocci e, mediante l’audizione di ventisei testimoni, constatò il mandato del medesimo nell’omicidio di Giacinto Corso. Rei d’intelligenza in detto omicidio erano pure Giulia Coscia e Stefano della Rocca (suo figlio), che furono carcerati.

s) Il costituto del Cocci .
Il primo dicembre 1739, Giuseppe Cocci fu interrogato dal signor commissario della Vicaria sopra l’omicidio perpetrato da Pietro Antonio della Selva. Secondo il Cocci, l’omicidio era conseguenza della protervia di Giacinto Corso. Il Cocci depose che, volendo Pietro Antonio ammonire Giacinto, quest’ultimo gli aveva risposto in malo modo. Per di più Giacinto aveva minacciato di vendicarsi e di accusarlo al governatore.

t) Pietro Antonio della Selva confessa l’inimicizia coll’ucciso.
Giuseppe Cocci depose che altro screzio non aveva avuto con Giacinto Corso se non la mancata elargizione di due tomoli di grano che il marchese di Caiazzo era solito regalare a Domenico Corso, padre di Giacinto. Morto Domenico, cessò la consuetudine del donativo. In quel preciso istante Giacinto prese in odio il Cocci e si unì alle mene di padre Giuseppe Forgione e del canonico Don Giovanni Battista Palazzeschi. I tre, fomentati dal sacerdote Don Antonio Pinzani , scrissero alcune lettere al confessore dell’illustrissimo marchese Corsi, col fine di far revocare l’incarico d’Agente al Cocci per conferirlo a Don Pinzani medesimo. Interrogato il Cocci se dopo l’omicidio avesse parlato con Pietro Antonio della Selva e gli avesse dato denaro, rispose negativamente. Si ricordava solo di avergli mandato dieci o quindici carlini, che avanzavano dal suo salario. Interrogato su Giulia Coscia, disse di conoscerla perché costei lavava i panni dei ministri del padrone. Il Cocci ammise di aver tenuto con lei onesta corrispondenza.

L’11 gennaio 1740 cadde il termine delle difese dei rei. Il 15 gennaio 1740 fu fatta la ripetizione dei testimoni fiscali, che giurarono alla presenza dei procuratori.

10. Sette piccoli paragrafi

Dovendosi presentemente determinare questa causa, per stabilire le prove fiscali divideremo la presente scrittura in sette capitoli.
Nel primo dimostreremo che Pietro Antonio della Selva, con consapevolezza e proditoriamente, uccise Giacinto Corso per ordine e mandato di Giuseppe Cocci. Nel secondo faremo vedere le motivazioni che Giuseppe Cocci porta nel proprio difensivo, secondo cui il solo Pietro Antonio della Selva si mosse ad ammazzare Giacinto Corso. Nel terzo esporremo gli altri indizi che fan presumere il mandato di Giuseppe Cocci. Nel quarto proveremo che Pietro Antonio della Selva ammazzò Giacinto Corso per ordine e commissione anche di Giulia Coscia (concubina di Giuseppe Cocci), con intelligenza di Stefano della Rocca (figlio di Giulia Coscia). Nel quinto dimostreremo che, essendo certi e indubitati gli indizi che concorrono nella presente causa contro Giuseppe Cocci, Giulia Coscia, e Stefano della Rocca per il mandato e intelligenza avuta con Pietro Antonio della Selva nell’omicidio di Giacinto Corso, debbano in conseguenza tutti e tre essere condannati alla pena ordinaria della morte. Nel sesto dimostreremo che padre Giuseppe Forgione, il canonico Don Giovanni Battista Palazzeschi e Buonaventura de Pertis sono soggetti riguardevoli, e qualora (per causa di puro zelo) fossero nemici di Giuseppe Cocci, non hanno turbato il presente giudizio. Nel settimo finalmente dimostreremo che quanto operò il computista Don Antonio Pinzani nel riesame dei conti dell’amministrazione Cocci fu fatto con autorità di giudice. Faremo anche vedere il giustissimo motivo che mosse le querelanti a nuovamente ricorrere a Sua Maestà Carlo III di Borbone.

I. In cui si dimostra che Pietro Antonio della Selva proditoriamente uccise Giacinto Corso per ordine e mandato di Giuseppe Cocci, allora Agente e Fattore generale dello Stato di Caiazzo.

Dai fatti finora esposti, chiaramente si desume che Pietro Antonio della Selva, alla presenza di più testimoni, ammazzò con un colpo di carabina Giacinto Corso, facendogli mortale ferita nel fianco destro. Donde è che resta pienamente provato il corpo del reato, che è la base e il fondamento dell’inquisizione. Si ravvisa inoltre che Pietro Antonio della Selva premeditatamente venne dal castello di Dugenta per ammazzare Giacinto Corso. Pietro Antonio della Selva venne a Caiazzo col pretesto di portar lettere; secondo altri testimoni giunse in città per guardare il castello marchesale. A ogni modo, Pietro Antonio della Selva portò Giacinto Corso fuori della città (in un luogo men frequentato) e qui lo uccise. Tra l’uccisore e l’ucciso intercorreva un’amicizia di più anni; molte volte camminavano unitamente, si chiamavano tra di loro compari sebbene tali non fossero. Per questi atti di finta amicizia, di simulata cordialità, non ebbe motivo di riguardarsi il povero Giacinto Corso, e mal gliene incolse. Riflettiamo ancora che a gennaio o febbraio dell’anno 1736 andò Giacinto Corso a piedi dal marchese Corsi a Firenze e palesò il concubinato di Giuseppe Cocci. Nel mese di aprile dell’anno 1737 fu il Cocci rimosso dalla carica di Agente e Fattore generale dello Stato di Caiazzo, e il principale motivo addotto dall’illustre marchese fu la scandalosa pratica che il Cocci teneva con Giulia Coscia, come constatò nel suo accesso il regio commissario di campagna per i capi (d’accusa) dati contro il medesimo Cocci con la deposizione di Francesco de Angelis, Simone Giannelli, Cesare di Fiore, Cesare di Giglio e altri, che si leggono in detto processo dell’accesso. Non volle meno di un anno di tempo il saggio marchese di Caiazzo per verificare le prove di Giacinto Corso contro il suo ministro Giuseppe Cocci per assicurarsi, cautelarsi e per destinare un successore di buone qualità. Purtroppo il mastro di casa, Don Francesco Cocci, ben pronosticò la caduta del fratello. Né mancò, fin dal ritorno di Giacinto a Caiazzo, di denunciare il tutto a Giuseppe, che può ognuno pensare che odio concepisse contro Giacinto. Il povero Giacinto stava per far decadere Giuseppe Cocci. La perdita degli onori, delle cariche vantaggiose e degli smodati lucri è causa di una più che capitale inimicizia contro chi è fomite di tal sciagura. Contrariamente, tra Giacinto Corso e Pietro Antonio della Selva non vi fu mai vero odio. Nonostante piccole differenze di vedute incrinassero talvolta la loro amicizia, i due subito facevano pace, tant’è vero che si trattavano da strettissimi amici, camminando continuamente assieme e chiamandosi compari. Perciò si presume che l’omicidio sia stato commesso per ordine d’altri. Tra tutti gli armigeri, Pietro Antonio era il più distinto e Giuseppe Cocci solo con lui di continuo s’accompagnava. A lui solo corrispondeva più vantaggiosa la provvigione, a lui solo dispensava i favori. Si sforza il Cocci (nel quinto degli articoli a sua difesa) di far vedere che la sua affezione derivava dalla puntualità, dalla sollecitudine, dall’accortezza di Pietro Antonio, ma la verità è una sola, cioè che Pietro Antonio aveva la sorte di essere congiunto a Giulia Coscia, l’amante di Giuseppe Cocci. Si presume che l’omicidio commesso dall’armigero Pietro Antonio della Selva sia stato fatto per soddisfazione di Giuseppe Cocci. Questa è la pubblica voce. Acciò la pubblica voce sia pienamente provata, tre sono le cose che copulativamente devono concorrere: 1) Che sia deposta da più testimoni. 2) Che pubblicamente abbiano inteso dirla. 2) Che nominino specificamente coloro da cui la intesero. In tal maniera appunto questa pubblica fama è stata deposta dai testimoni fiscali. È stata deposta da molti testimoni, maggiori d’ogni eccezione, che attestano d’averla intesa dire pubblicamente, e da altri loro paesani, che specificamente nominano. Giuseppe Cocci, per elidere la pubblica voce del proprio mandato, nel difensivo ha fatto dire da alcuni sacerdoti suoi dipendenti, fra cui Don Francesco Sparano, Don Pietro Leone, Don Stefano Marocco, Don Stefano Sabetta, che lui è innocentissimo di tal delitto, e che Pietro Antonio della Selva lo commise per proprio interesse. Però i testimoni del Cocci, non nominando le fonti, sono inattendibili. Giuseppe Cocci si è sforzato di far attestare a codesti testimoni la sua buona fama, cioè la sua liberalità nei confronti delle chiese, l’amore verso il prossimo, la frequenza dei sacramenti, e hanno mancato di poco costoro, attratti dagli atti esterni del Cocci, di canonizzarlo, qual nuovo Ser Ciappelletto. Dicono che egli abbia fatto molti riguardevoli doni alle chiese della città di Caiazzo11, e specialmente alla cattedrale, cioè al patriarca San Giuseppe e a Gesù Bambino, rispettivamente il bastone e il diadema d’argento. Altri ornamenti donò a Santo Stefano Minicillo, poi un messale di velluto cremisi con coperta d’argento, messe alle anime del Purgatorio, ed elemosine continue ai poveri. Prima di deporre queste cose però, i testimoni avrebbero dovuto vedere i libri contabili dell’illustre marchese di Caiazzo, perché le avrebbero trovate tutte registrate. Il Cocci eseguiva queste opere sante per ordine del marchese Corsi, di cui si devono notare la pietà e la liberalità. Giuseppe Cocci alimentava col proprio denaro la numerosa schiera dei figli e nipoti di Giulia Coscia, con scandalo enorme di tutta la città di Caiazzo. Tutto ciò il Cocci faceva al tempo della convivenza more uxorio con Giulia Coscia. Giuseppe Cocci dovrebbe almeno dichiarare che in quei tempi viveva secondo le leggi dei Longobardi, che permettevano il concubinato, come riferisce il riverito maestro Niccolò de Simone nell’eruditissima sua opera sopra gli statuti municipali della città di Caiazzo. Aveva ben ragione il Cocci di far allora quegli atti di sopraffina ipocrisia, non tanto per tener lusingato il volgo, quanto per tenere ingannato l’integerrimo vescovo di Caiazzo monsignor Costantino Vigilante, il cui esperimentato zelo fortemente temeva. L’abbiam noi coi propri occhi veduto, ai piedi di quel vescovile soglio, sentire con devozione le Messe, ascoltare con attenzione le prediche, e fare ogni altro atto esterno da vero cristiano; e per confermarsi maggiormente, il Cocci fece allora unire un’assemblea di teologi (suoi dipendenti), dai quali fece dichiarare esser lecito tenere Giulia nel proprio casino e, in conseguenza, essere permesso il concubinato. Se i moralisti abitassero a Caiazzo, avrebbero di che scrivere! L’autorità di codesti teologi non può togliere il Cocci dai ceppi e dalle catene temporali che lo circondano. Purtroppo l’uccisore non est in vinculis . Però, ci sono indizi inoppugnabili e bastevoli per affrontare un processo.

II. In cui si dimostra esser figurate e ideali le cause che nel suo difensivo da Giuseppe Cocci si portano, secondo cui il solo Pietro Antonio della Selva si mosse ad ammazzare Giacinto Corso.

Giuseppe Cocci, per porsi in salvo e per coprire la propria colpevolezza, dall’Agente generale del suo illustre padrone in Napoli fece nella Segreteria di Giustizia attribuire la causa al regio tribunale di campagna. Onde il 26 maggio 1736 con dispaccio della Segreteria di Giustizia la causa fu commessa al regio tribunale di campagna. Dopo aver corrotto lo scrivano del tribunale di campagna Carlo Primigerio con alcune somme di denaro, altro non fu l’impegno del Cocci che di occultare gli indizi del proprio mandato. Giuseppe Cocci, nel difensivo, affermò che lo scrivano di campagna Carlo Primigerio non appurò il vero movente del delitto perché, nel tempo in cui avrebbe dovuto esaminare i testimoni, se la spassava al gioco delle carte. Secondo il Cocci, una delle cause scatenanti che avrebbero portato all’omicidio era che una volta Pietro Antonio e Giacinto s’incontrarono alle due di notte (le ore 20.00) vicino alla casa di Stefano Morelli, dove abitava la fidanzata di Giacinto e, in quel frangente, quest’ultimo avesse tirato un colpo di carabina a Pietro Antonio, senza però colpirlo. I testimoni di parte del Cocci (Giovanni de Marco, Aniello Maturo, Crescenzo Cacchillo, Sebastiano Maturo, Berardino Foschi, Stefano Cafararo, Lorenzo di Vito, Stefano di Matteo) lo depongono semplicemente de auditu . Dalla Corte [tribunale feudale] della città di Caiazzo si osserva che una sola volta fu inquisito il povero Giacinto Corso, per alcune piccole contusioni fatte in rissa a Giuseppe e Filippo Altieri, a novembre dell’anno 1735. Dalla causa che seguì, Giacinto uscì assolto. È dunque da sapersi che la sera di domenica dell’anno 1733 che era la Pasqua di Resurrezione, verso un’ora di notte (le 19.00) Stefano della Rocca (figlio di Giulia) s’imbatté per caso in Giacinto Corso mentre percorreva un vicolo della città di Caiazzo. Stefano della Rocca impedì il transito a Giacinto di modo che, fatta violenza per passar forzosamente, Giacinto ruppe una caraffa che Stefano portava in mano. Proseguendo poi Giacinto il suo cammino, si fermò sotto le case della Corte feudale a parlar con suo fratello Francesco Corso. Quivi Giacinto fu sopraggiunto dall’armigero Pietro Antonio della Selva che, con la carabina, gli diede una percossa nel petto. Onde Giacinto, vedendosi offeso, passò alle vie di fatto nei confronti di Pietro Antonio, buttandolo a terra. Proprio allora sopraggiunse Giuseppe Sgueglia (alias Scirocco) che, impugnato lo stiletto per liberare Pietro Antonio, ferì alla testa Giacinto. La rissa finì poiché Giacinto, vedendosi ferito e insanguinato, rimase attonito. Pietro Antonio, con Bartolomeo di Giglio, seguì Giuseppe Sgueglia che fuggiva a gambe levate. Tutto ciò si legge nel processo celebrato nella Corte marchesale, intitolato Informatio de vulneribus cum sanguinis effusione ictu cultri, vulgo stiletto, in personam Hyacinti Corso. Pro magnifico Curiae Coadiutore contra Josephum Sgueglia, alias Scirocco . Stando a quanto afferma il Cocci, l’armigero Pietro Antonio della Selva decise di uccidere Giacinto Corso anche perché quest’ultimo era un giovane scapestrato, di pessimi costumi e di mala vita, era insomma capital nemico di tutti gli armigeri del castello. Sempre secondo il Cocci, il giovane Giacinto bastonava la madre e maltrattava tutti i concittadini. Così appunto Giuseppe Cocci infierisce contro un morto.

III. In cui si espongono gli altri indizi, che fanno presumere il mandato di Giuseppe Cocci.

Appena commesso l’omicidio, Pietro Antonio, alle ore 24 (le 18.00) dello stesso giorno si portò immediatamente presso il castello marchesale di Caiazzo, residenza dei ministri del feudatario e, quantunque non vi fosse il Cocci (che sotto alcuni pretesti si tratteneva allora in Dugenta), non ebbe alcun timore dell’altro armigero e degli altri che ivi stavano. Di modo che l’armigero Giovanni Battista Avella fu costretto a cacciarlo acciò non si fosse recato maggior scandalo a quel popolo. Questo lo attesta il detto Giovanni Battista.
Riconoscendo Giuseppe Cocci che la deposizione di Tiberio Appietto molto gli nuoce, si è adoperato ricusarlo come mendace per causa di una capitale inimicizia che pretende avere col medesimo, come dall’articolo quarto del suo difensivo. Faremo noi con chiarezza vedere che l’inimicizia tra Giuseppe Cocci e Tiberio Appietto non è capitale.
È da sapersi che, una volta licenziato, Giuseppe Cocci passò a servire come Agente l’illustre principe di Colubrano, nella Baronia di Formicola. Tuttavia Giuseppe Cocci, con Tiberio Appietto aveva dei conti in sospeso. Questi furono poi verificati e sottoscritti, davanti a testimoni, da Andrea Cocci, nipote e procuratore generale di Giuseppe. Dalle verifiche, Tiberio Appietto risultò creditore di Giuseppe Cocci per la somma di centosettanta ducati. Nonostante Tiberio Appietto richiedesse continuamente il denaro, ogni tentativo fu vano, e alla fine ricorse alla Corte di Caiazzo. Così l’Appietto fece sequestrare centosettanta capre, di proprietà del Cocci, che il caiatino Giovanni Landulfo teneva in affitto, e anche settanta ducati che l’università di San Pietro e Paolo (giurisdizione della città di Caiazzo) doveva al Cocci. In seguito, Giuseppe Cocci mandò il mastro d’atti della Corte di Formicola (con molta gente armata) a riprendere violentemente le capre che, quasi in trionfo, furono condotte attraverso il centro di Caiazzo. Nello stesso tempo Giuseppe Cocci costrinse Stefano Loca (esattore dell’università di San Giovanni e Paolo) a rimborsargli i settanta ducati. Questi avvenimenti sono testimoniati da Angelo Vecchiarelli, Pietro di Jacovo, Silvestro di Agostino e Giovanni Friello. I testimoni del Cocci dicono che quando il mastro d’atti di Formicola riportava indietro le capre, Tiberio Appietto si morse le mani e minacciò Giuseppe Cocci. Il che è falsissimo, perché Tiberio in quel tempo si trovava nella terra di Raiano [o Rajano] per sue urgenti faccende, come depongono Emanuele Paulella e Matteo Minicone. Da tutto ciò chiaramente si deduce che l’inimicizia tra Giuseppe Cocci e Tiberio Appietto è stata cagionata da una semplice lite civile. Donde è che, secondo il sentimento di tutti gli autori, un litigio di sì tenue somma provoca un’inimicizia capitale e bastevole a far decadere l’importante deposizione di Tiberio Appietto.
Pietro Antonio della Selva, qualche tempo dopo l’omicidio, essendosi rifugiato nella chiesa dell’Annunziata in Caiazzo, da quella continuamente (di notte e di giorno) usciva armato con una carabina. Soleva alcune volte andar solo, altre unirsi con due armigeri di Giuseppe Cocci, di nome Aniello Maturo e Crescenzo Cacchillo. Liberamente e come se non avesse commesso alcun delitto, Pietro Antonio della Selva passeggiava per la città, andando per botteghe e per osterie. Si giocò perfino una caraffa di vino con Francesco Corso (fratello dell’ucciso), come depongono Tommaso di Leo, Giacomo Anziano, Francesco Antonio Alberti, Pompeo Alberti e Francesco Giorgi. Avrebbe potuto avere questa baldanza, l’ardire di camminare secondo la propria volontà, Pietro Antonio della Selva, dopo un omicidio così barbaro, senza il favore e il tacito permesso di Giuseppe Cocci? Conoscendo Giuseppe Cocci esser questo un indizio troppo forte contro se stesso, ha fatto ogni sforzo per abbatterlo con deposizioni dei suoi testimoni, che appaiono frivolissime e di nessun valore.

IV. Si dimostra che Pietro Antonio della Selva ammazzò Giacinto Corso per ordine e commissione anche di Giulia Coscia, con intelligenza di Stefano della Rocca.

Giacinto Corso, quando si portò nella città di Firenze ai piedi del marchese, gli illustrò la vita di Giuseppe Cocci e l’antico concubinato che questi teneva con Giulia Coscia. Avute buone speranze dal padrone di presto castigare e deprimere l’orgoglio dell’uno e dell’altra, nel ritornare a Caiazzo Giacinto Corso si pose pubblicamente a sparlare dei perfidi amanti. Perciò, a tutt’e due, Giacinto fu odiosissimo. Giulia Coscia e Stefano della Rocca erano parenti di Pietro Antonio della Selva perché Giuseppe Russo, cugino di Pietro Antonio, teneva in moglie Isabella della Rocca, figlia di Giulia e sorella di Stefano. È quanto emerge dalle testimonianze di Nicola Di Palma, Francesco Mancino, Ferdinando Bottalagana.
Poche ore dopo l’assassinio, Stefano della Rocca, trovandosi vicino al pozzo della città di Caiazzo, disse a Giuseppe Sgueglia e ad Angela Ferraro: «Bella la fine di Giacinto».
Testimoniano ciò Giuseppe Sgueglia e Angela Ferraro, che l’hanno ratificato poi nel processo informativo della Gran Corte della Vicaria. Stefano, unitamente con Giovannella della Rocca (sua sorella), ha sempre portato da mangiare a Pietro Antonio della Selva, quando questi era rifugiato nella chiesa dell’Annunziata in Caiazzo. Il custode dell’ospedale Ave Gratia Plena, Pietro Milano, e sua moglie Maria Di Rienzo hanno testimoniato ciò. Giuseppe Cocci continuava a pagare lo stipendio a Pietro Antonio della Selva anche dopo l’omicidio di Giacinto Corso, come depone il servitore del Cocci Agostino Mennillo. Stefano della Rocca è una persona di mala vita, solito a far risse e a commettere malefici, e non è questa la prima volta che è inquisito. Egli, a febbraio 1732, con un colpo di carabina ferì alla pancia Giuseppe Sgueglia (del quondam Pompilio) per leggerissima causa di gioco. Stefano della Rocca, a dicembre dell’anno 1735, con cinque colpi di stiletto ferì suo zio Domenico Perillo per cagione di una semplice stuoia, che serviva a proteggere i somari dalle intemperie. Sempre Stefano della Rocca, a novembre dell’anno 1735, risultò inquisito per aver tirato dei colpi di carabina contro alcuni passanti. Di questi delitti, grazie alla protezione di Giuseppe Cocci, giammai fu castigato. Il tutto si legge dalla fede del mastro d’atti della Corte feudale caiatina.

V. Si dimostra che, essendo certi e indubitati gli indizi che concorrono nella presente causa di Giuseppe Cocci, Giulia Coscia e Stefano della Rocca, per il mandato e intelligenza avuti con Pietro Antonio della Selva nell’omicidio di Giacinto Corso, debbano di conseguenza tutti e tre esser condannati alla pena ordinaria della morte.

Indizi che fanno presumere il mandato di Giuseppe Cocci prima dell’omicidio.
L’odio grave concepito da Giuseppe Cocci contro Giacinto Corso.

Indizi che fanno conoscere ratifica di mandato di Giuseppe Cocci contro l’omicidio.
Poco dopo l’omicidio, lo scrivano del tribunale di campagna giunse a Caiazzo. Giuseppe Cocci tentò di subornarlo non solo occultando il proprio mandato, ma facendogli credere che l’omicidio fosse stato commesso da Pietro Antonio per ragioni personali. Sei mesi dopo l’omicidio, Giuseppe Cocci ebbe un colloquio con l’uccisore nella chiesa dell’Eremo di Santa Maria in Alvignanello.

Indizi che provano il mandato di Giulia Coscia, concubina di Giuseppe Cocci.
L’inimicizia capitale, perché Giacinto Corso era andato in Firenze a far conoscere al padrone il concubinato di Giulia Coscia con Giuseppe Cocci.

Indizi che provano l’intelligenza di Stefano della Rocca (figlio di Giulia Coscia) nell’omicidio commesso da Pietro Antonio della Selva.
Stefano della Rocca mostrò sempre soddisfazione dell’omicidio. Lo considerava un punto rato e fermo.
Sia ora permesso mettere a confronto i testimoni fiscali con quelli che il Cocci fa esaminare nel proprio difensivo. I testimoni fiscali sono non meno di ventisei, quasi tutti benestanti e per lo più scriventi e superiori a ogni eccezione.

Veniamo a parlare ora dei testimoni citati dal Cocci nel suo difensivo.
a) Aniello Maturo e Crescenzo Cacchillo, armigeri di professione, sono stati subornati e corrotti dal Cocci.
b) Stefano Cafararo è persona scandalosissima, inquisito di più stupri, reo di concubinato e soggetto a scomuniche.
c) Berardino Foschi è amicissimo e confidente del Cocci, sempre beneficiato da questi. È stato allontanato di molte miglia dalla città di Caiazzo perché subornava i testimoni fiscali.
d) Giovanni de Marco, più volte reticente in varie deposizioni, è amico e confidente del Cocci.
e) Lorenzo Di Vito e Stefano Di Matteo sono ambedue faticatori di campagna.
f) Andrea Maresca è l’oste della taverna di Porta Vetere.
g) Nicola Landulfo è un barbiere.

Questa è la qualità dei restanti testimoni di Giuseppe Cocci: zappatori, osti e barbieri. Qual fiducia si può avere di costoro, che sono persone vili e bisognose? Sono capaci di deporre qualsiasi cosa per una tenuissima somma e, di conseguenza, facilissimi, con la subornazione, a esser falsi e mendaci.
Essendo certi e indubitabili gli indizi rispetto a ciascuno dei rei, non vi è dubbio che debbano essere tutti e tre condannati alla pena ordinaria della morte. L’uccisore purtroppo non si trova in carcere.

VI. In cui si dimostra che il molto reverendo padre Don Giuseppe Forgione, il canonico Don Giovanni Battista Palazzeschi e Buonaventura de Pertis sono soggetti riguardevoli né hanno avuto mai inimicizia con Giuseppe Cocci e, qualora per causa di un puro zelo fossero stati nemici di quello, non gli hanno recato nocumento alcuno nel presente giudizio.

Il padre Don Giuseppe Forgione nutriva rancore nei confronti di Giuseppe Cocci poiché ne era stato allontanato da Caiazzo (questo secondo la versione del Cocci). Per tal motivo Padre Forgione avrebbe istigato madre e sorelle di Giacinto Corso a denunciare il Cocci. Padre Forgione nacque nella città di Caiazzo da onestissimi e facoltosissimi parenti, e la sua casa abbondava di beni. Egli però, fin dalla sua prima giovinezza, rinunziando alle vanità del mondo fallace, si fece chierico regolare minore nella città di Napoli. Dopo essere stato uno dei più brillanti oratori del nostro regno, occupandone i primi pulpiti, adesso è confessore delle persone più ragguardevoli di Napoli. Accadde la disgrazia della morte di tutti i suoi più stretti congiunti, di modo che fu costretto a portarsi nella città di Caiazzo per riordinare le cose della propria casa. Giacinto Corso era un antichissimo familiare, dipendente e compare di quella casa. Padre Forgione scrisse la lettera che Giacinto Corso portò a Firenze per smascherare le magagne del Cocci.
L’altro nemico che si figura Giuseppe Cocci è il canonico Don Giovanni Battista Palazzeschi. Il Cocci ha indotto artificiosamente due sbirri (due suoi armigeri) a deporre che fu Don Palazzeschi a convincere la madre e le sorelle di Giacinto Corso a prostrarsi ai piedi di Sua Maestà il Re Carlo III di Borbone per implorare giustizia. Secondo il Cocci fu proprio Don Palazzeschi che istigò Brigida Paterno (madre dell’uccisore) a dare al Cocci medesimo la colpa dell’omicidio.
Il sacerdote Don Giovanni Battista Palazzeschi è un canonico di somma integrità, pieno di fervoroso zelo. Don Palazzeschi, vedendo Giuseppe Cocci immerso nel fango e nelle sozzure di una scandalosa pratica carnale, non tralasciava di ammonirlo continuamente, ma il Cocci, qual cieca talpa, ottenebrato dall’amore di quella rea femmina, era sordo a tali fondati discorsi del canonico. Giuseppe Cocci capì d’essere in pericolo quando vide il canonico Palazzeschi abboccarsi col segretario dell’illustre marchese Corsi. Quando una volta il dottor Nicola Faraone, cognato di Don Palazzeschi, vide la contabilità dell’amministrazione Cocci, quest’ultimo si sentì addirittura perseguitato. Tutto ciò si legge negli atti dello scrivano Niccolò Malinconico, quando il regio commissario di campagna fece il suo accesso a Caiazzo. Queste sono vane congetture del Cocci, false invenzioni per infamare un uomo così riguardevole.
Il terzo nemico che si figura il Cocci è Buonaventura de Pertis. Crede il Cocci che sia stato anche de Pertis a istigare la madre e le sorelle dell’infelice Giacinto a portarsi a Firenze e poi a ricorrere ai piedi del Re di Napoli. Buonaventura de Pertis è un gentiluomo nato nella terra di Dragoni, che da pochi anni abita a Caiazzo, per essersi ivi congiunto in matrimonio con una delle prime gentildonne della città. Egli, quantunque fosse professo nelle leggi, ritrovandosi molto agiato, non esercita la professione. È un uomo compitissimo nel tratto, premuroso con gli amici, gentilissimo coi forestieri.
È nemico dei fatti altrui e vive solo per se stesso, né troppo cura i pubblici uffici perché vi ha rinunziato infinite volte per godere una perfetta quiete. Giuseppe Cocci ebbe questo riguardevole uomo, fin dal principio, per suo capital nemico, né tralasciò mai di perseguitarlo e dargli disgusto. Posso io essere fedele testimonio delle sue sciagure. Il canonico Palazzeschi e Buonaventura de Pertis non hanno subornato e non hanno istigato i testimoni fiscali. Sono uomini probi.

VII. In cui si dimostra che quanto operò il computista Don Antonio Pinzani, esaminando i conti di Giuseppe Cocci, fu con autorità di giudice fatto. E si mostrerà ancora qual fosse il giustissimo motivo che mosse le querelanti a ricorrere nuovamente a Sua Maestà il Re di Napoli.

Giuseppe Cocci si è sforzato di far conoscere per suo capital nemico uno dei ministri dell’illustre marchese Corsi, cioè il computista Antonio Pinzani.
A tal effetto, il 30 maggio 1737, il Cocci ha presentato nel suo difensivo una lunghissima relazione. V’è scritto che nel tempo in cui Antonio Pinzani stette in Caiazzo per vedere i conti dell’amministrazione feudale, si comportò con astio e livore contro il Cocci medesimo. Secondo Giuseppe Cocci, il Pinzani aspirava alla sua carica, ma è una falsità. Antonio Pinzani si comportò onestamente, adempiendo il suo ufficio. Il 26 febbraio 1736, l’illustre marchese Antonio Corsi spedì una patente amplissima al suo computista Antonio Pinzani. Nella lettera, il marchese ordinava al Pinzani di licenziare dalla carica di Agente Giuseppe Cocci. L’accortissimo Pinzani occultò quella patente alcuni giorni per venire in cognizione delle moltissime cose che al padrone appartenevano, e alla fine di marzo 1737 licenziò Giuseppe Cocci. Poi costrinse il Cocci a presentare il rendiconto e, per l’analisi, chiamò in aiuto il dottor Nicola Faraone. Il 15 aprile 1737, finito d’esaminare il bilancio, Giuseppe Cocci era debitore nei confronti del marchese Corsi di 3022 ducati. Il bilancio del Cocci fu sottoposto al giudizio di monsignor Costantino Vigilante, vescovo della città di Caiazzo, prelato degno di ogni lode per la profondità della dottrina, per la santità dei costumi, per la liberalità verso la sua Chiesa.
Monsignor Vigilante (esaminata ogni cosa con attenzione) dichiarò Giuseppe Cocci debitore per la somma di ducati 2655.
La somma fu dal Cocci immediatamente pagata.
Ora, Agente generale dello Stato di Caiazzo è il reverendo Don Domenico Antonio Pasquinucci, uomo di delicata coscienza e di soavissimi costumi, che amministra con giustizia e dolcezza. Passato sotto la protezione dell’illustrissimo Principe di Colubrano, il Cocci divenne Agente della Baronia di Formicola. Cominciò da quel momento a comportarsi da mascalzone unitamente a suo nipote Andrea Cocci, usando di continuo atti d’imperio nella giurisdizione del marchese Corsi. Compariva spesso a Caiazzo accompagnato da armigeri, per arrecare ad altri terrore. Sovente inquietava quella Corte e il suo governatore, e soprattutto minacciava alcuni vassalli che avevano cooperato alla sua caduta. Avvisato di ciò, il marchese Corsi fece incriminare, con molti capi d’accusa, Giuseppe e Andrea Cocci. I due non misero mai più piede nello Stato di Caiazzo. Il Re di Napoli ordinò al commissario di campagna d’arrestare Giuseppe Cocci e di trasmettere gli atti alla Gran Corte della Vicaria.

11. Epilogo

Dagli atti processuali viene fuori la vita sociale caiatina del tempo, peraltro simile a quella di tutti i paesi d’Italia, soprattutto quando capitano determinati avvenimenti. Le familiari della vittima, impedite dalle pastoie giudiziarie del tribunale di campagna, sono costrette con petizioni e deposizioni a mostrare sempre l’onorabilità del proprio casato, in una lotta per la legalità. Dal quadro complessivo dei testimoni emerge un paese diviso. Appaiono molti personaggi. Quelli che dal Cocci hanno ottenuto favori e prebende parteggiano per lui. Altri cittadini, più probi e al disopra di ogni sospetto, prendono invece le parti delle povere donne. Sfortunatamente non si conosce la fine del processo poiché, in gran parte, i documenti della Vicaria furono volutamente bruciati negli ultimi anni del regno borbonico. Meno male che la famiglia Corsi è stata attenta custode della propria documentazione, regalandoci ancora pagine di storia tutte da scrivere.

CRONACA D’UNA FUGA 

Fuga da Caiazzo

Come Paolo e Nicola Feminiano tolsero dalle mani degli armigeri del castello caiatino il catturando Tommaso Giannelli, nel mese di settembre 1738.

Una sera di settembre 1738, alcuni armigeri, dovendo eseguire un delicato compito per conto dell’Agente feudale Don Domenico Antonio Pasquinucci , scesero dal castello di Caiazzo portandosi verso l’osteria sita appena fuori Porta Vetere. Subito si accorsero che sotto detta porta erano nascoste tre persone che, avendo visto appressarsi gli armigeri, si allontanarono. I gendarmi, insospettiti, seguirono i tre e, dopo una rocambolesca corsa, riuscirono ad arrestare il solo Tommaso Giannelli, armato di schioppo. Mentre i gendarmi stavano bussando alla porta della Corte per consegnare il Giannelli alle Carceri , sopraggiunsero Paolo e Nicola Feminiano. I fratelli Feminiano, appostati nell’atrio del seminario che domina l’entrata di detta Corte, impugnate le armi da fuoco, assaltarono le guardie. Con impavida audacia, i fratelli Feminiano, minacciando di far fuoco, pretendevano che le guardie rimettessero in libertà Tommaso Giannelli. Intesa la voce dei compagni, Tommaso Giannelli si mostrò anch’egli ardito nell’opporre resistenza contro gli armigeri, volendo scappare dalle loro mani. Giannelli implorò l’aiuto dei fratelli Feminiano, supplicando che sparassero contro le guardie. Nonostante tutto, un gendarme, dopo aver sequestrato lo schioppo, teneva ben cautamente avvinto il Giannelli. Intanto i fratelli Feminiano, con grida e minacce sempre più forti e insistenti, posero sottosopra e in timore quasi tutta la città. A un tratto i fratelli Feminiano furono sopra la guardia che teneva il Giannelli. Uno dei Feminiano, con un coltello recise le funicelle che tenevano legate le braccia del Giannelli, rendendolo libero. I tre delinquenti poi se la diedero a gambe e gli armigeri si ritirarono nel castello, loro residenza.
Poco dopo, come se nulla fosse successo, si videro i fratelli Feminiano e Tommaso Giannelli camminare per la piazza principale di Caiazzo, parlando spavaldamente tra loro. Poi, i tre furfanti ritornarono al principio della salita che conduce al castello per spaventare gli armigeri, dicendo che li avrebbero fatti a pezzi. Cercavano in tutti i modi di provocare gli armigeri, dicendo loro di uscire dal castello se avessero avuto coraggio. Minacciavano anche il governatore e il mastro d’atti della Corte di Caiazzo, alzando la voce per farsi sentire. La mattina dopo, con somma sfacciataggine, i tre si fecero vedere ancora mentre passeggiavano per la pubblica piazza, con scandalo di chiunque li mirava. I tre malviventi poi, si rifugiarono in una chiesa. Dopo un po’ si trasferirono in un’altra giurisdizione, ove al presente si trovano.

Purtroppo, anche del processo a carico di Tommaso Giannelli e dei fratelli Feminiano, tenutosi presso il regio tribunale di campagna, si sono perse le tracce.

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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]

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