1865. Il sequestro di William John Charles Moens

di Donato D'Urso

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Il pomeriggio del 15 maggio 1865 una carrozza stava riportando a Salerno, da una visita ai templi di Paestum, due coppie di inglesi: William John Charles Moens, la moglie Annie Warlters, il reverendo John Cruger Murray Aynsley e signora.
Moens, con sottile humor, ricordò l’avviso che aveva letto in albergo: «Il sig. V. de Maio, proprietario dell’Hotel Vittoria di Salerno, informa i viaggiatori desiderosi di visitare i templi di Paestum, che la strada tra Salerno e Paestum ora è perfettamente sicura grazie alla vigilanza del generale Avenati, comandante la Divisione Militare, che ha disposto delle pattuglie lungo la strada a Battipaglia, Barizzo e Paestum».
La carrozza con i quattro viaggiatori stranieri fu assalita da una banda di briganti poco dopo Battipaglia. I due uomini furono immediatamente divisi dalle mogli e portati via insieme con alcuni contadini, scomodi testimoni del sequestro. Iniziò una lunga marcia che portò la comitiva molto lontano.

Quando ci fu permesso un breve riposo, il capitano della banda (il cui nome scoprii era Gaetano Manzo) dette ad ognuno di noi per farci sedere un largo mantello chiamato capote e generalmente indossato dai contadini. Cogliemmo questa occasione per interrogare il capitano su quello che volevano da noi. Sfregò il pollice e l’indice della mano destra e disse: – Denaro, non temete. Gli chiesi quanto dovessimo camminare ancora. La risposta fu: – Lontano, lontano, assai. Continuammo il cammino attraversando terreni paludosi e profondi fossi che noi saltavamo facilmente con grande divertimento dei briganti che non sapevano saltare. Ridevano di cuore alla nostra agilità e ridevano ancora di più quando uno di loro cadeva nel fosso. Eravamo nei pressi del mare quando superammo una casa e l’uomo mandato a vedere ritornò con una grande quantità di pane scuro asciutto e duro dalla forma rotonda. Ci offrirono un pezzetto di salsiccia dura chiamata supersata ma dopo aver discusso insieme sulle sue qualità dicemmo che non ci piaceva. Risero e il capitano disse: – Tra poco vi piacerà, il che veramente accadde.

Si può immaginare l’angoscia delle mogli dei due sequestrati:

Speravamo e ci illudevamo che i briganti si sarebbero limitati a trascinare i nostri mariti fino ad un casolare che si trovava nelle vicinanze, dove avrebbero potuto rapinarli dei loro anelli, denaro e così via, stabilire i termini di un riscatto e poi rilasciarli. Dopo circa un quarto d’ora improvvisamente vedemmo una nuvola di polvere lungo la strada e sentimmo il rumore di cavalli che galoppavano velocemente. – I soldati! esclamò il cocchiere. Appena si avvicinarono li fermammo e comunicammo loro la terribile notizia. Presto la nostra carrozza fu circondata da gente curiosa. Ora i miei nervi stavano cedendo. Uno degli uomini, vestito un po’ meglio degli altri, continuava ad importunare la signora Aynsley: si trattava del medico del paese e aveva talmente insistito per farci un salasso che ella alla fine si era sentita obbligata a rispondergli in tono deciso. Guardai il suo viso pallido, sicura che il mio gli assomigliasse: un salasso proprio non ci voleva!

Il giorno dopo i briganti e i due inglesi erano arrivati sulle alture di Montecorvino Rovella. Il capobanda Manzo decise di liberare uno dei sequestrati, affinché potesse provvedere a raccogliere il denaro per il riscatto dell’altro prigioniero. Un’improvvisata estrazione a sorte favorì Murray Aynsley che partì. Subito dopo aver lasciato il gruppo, il reverendo incontrò le pattuglie militari che dal giorno precedente perlustravano in forze tutta la zona compresa tra la piana di Battipaglia e le montagne dell’interno. I soldati presto arrivarono a tiro di fucile dei briganti e spararono senza troppe cautele: una pallottola sfiorò la testa di Moens che aveva lo svantaggio di essere di alta statura. Dopo lo scambio di colpi, il contatto fu rotto. Nei mesi seguenti altre volte i soldati arrivarono, senza saperlo, assai vicino ai diversi rifugi dei briganti.
Chi erano i protagonisti di questa storia?
William John Charles Moens era nato nel 1833 in una famiglia di origine olandese, emigrata in Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Il padre lavorò nel commercio, mentre W.J.C. Moens operò come agente di Borsa e antiquario, accumulando una discreta fortuna. Sposatosi nel 1864 con Annie Warlters, l’anno dopo compì un lungo viaggio di piacere in Italia, iniziato in Sicilia ed interrotto dal drammatico sequestro nel Salernitano. Fu tra i fondatori della società ugonotta di Londra e morì nel 1904.
Moens narrò la sua disavventura sulla “West Review” (July 1866) e nel libro in due tomi English Travellers and Italian Brigands edito a Londra.

Il grande interesse dimostrato per la disgrazia capitata a me e al reverendo J.C. Murray Aynsley durante il nostro soggiorno nell’Italia meridionale la scorsa primavera (insieme alla richiesta di molti miei amici di scrivere un resoconto della mia disavventura), mi induce a sperare che una descrizione delle mie esperienze tra le montagne salernitane possa essere gradita ai miei compatrioti, soprattutto in vista del fatto che la vita “quotidiana” dei briganti italiani è poco conosciuta in Inghilterra, poiché pochi inglesi, o forse nessuno hanno avuto un’analoga occasione per osservare i loro costumi. Mi auguro vivamente che possa passare molto tempo prima che un mio amico compatriota debba avere la disgrazia di conoscere così intimamente le abitudini dei briganti.

Gaetano Manzo, di mestiere caciaio, era nato nel 1837 ad Acerno, paesino alle falde dei monti Picentini. Salì sui monti dopo essersi reso renitente alla leva. La legge borbonica del 1834 sul reclutamento prevedeva una ferma di otto anni. La disciplina era ferrea, anzi feroce, ma i giovani contadini e pastori, abituati dall’infanzia a una vita di privazioni e disagi e ad un'atavica rassegnazione al proprio destino, riuscivano comunque a sopportare tale esperienza. Ogni anno venivano inclusi nella lista generale tutti i giovani dai 18 ai 25 anni ma erano esentati i figli unici o che fossero il sostegno della famiglia, gli ammogliati, i seminaristi, ecc. La leva avveniva in ogni comune mediante sorteggio, con possibilità di sostituzione previo pagamento della cosiddetta “quota” (240 ducati), somma che di fatto rendeva il servizio militare obbligatorio solo per i meno abbienti. Dopo il crollo dei Borboni, il governo piemontese decise di richiamare alle armi i giovani già arruolati negli anni dal 1857 al 1860 e ciò bastò per rinforzare di migliaia di uomini le schiere dei briganti. Non andò meglio allorché, nella primavera del 1861, fu decisa una nuova leva di giovani nati dal 1836 al 1841. Fu allora che si decise il destino di Gaetano Manzo e di tanti altri. C’era però una particolarità che ne faceva un giovane speciale: sapeva leggere e scrivere.
La clamorosa notizia del sequestro mise in crisi le autorità italiane, centrali e periferiche. Il governo, in difficoltà sul piano interno e internazionale, ordinò di stringere le maglie della repressione. Presto le polemiche coinvolsero il prefetto di Salerno, conte Cesare Bardesono di Rigras, la cui posizione divenne insostenibile tanto che fu sostituito dal collega Decoroso Sigismondi. Ad Acerno, paese del capobanda, furono arrestate quasi un centinaio di persone, con la prospettiva di un processo dinanzi al tribunale militare o della deportazione in qualche isola. Furono incarcerate anche due sorelle di Manzo, di appena 15 e 9 anni.
Moens trovò in montagna altri due sequestrati, Francesco Visconti e il cugino Tommasino di 14 anni. Erano custoditi dalla banda di Luigi Cerino, che talvolta s’univa a quella di Manzo. «Il piccolo Tommasino era abbastanza grasso e sembrava godere di questo tipo di vita come un bambino, non si rendeva conto del pericolo che correva. Era il favorito della banda ed era già un mezzo brigante».
Strani tipi quei banditi! Rispettosi dei precetti religiosi, non mangiavano carne il mercoledì e il venerdì, a meno che fosse impossibile procurarsi altro cibo. Inoltre, si toglievano il cappello ogni volta che veniva nominato il nome della Madonna o di Nostro Signore o udivano le campane della chiesa suonare il Vespro, un’ora dopo il tramonto. C’erano nel gruppo anche alcune donne. Qualcuno ha parlato del fenomeno delle “brigantesse” come di occasione e manifestazione di emancipazione femminile e la letteratura se n’è spesso occupata con toni romantici. Non è questa la sede per approfondire la questione ma è interessante riportare la testimonianza di chi, queste donne, le conobbe da vicino:

Erano vestite esattamente come gli uomini; i capelli erano corti e la sola peculiarità nel loro modo di vestire era costituita da un indumento che, credo, le donne chiamano corsetto. Non mostravano nessuno di quei caratteri selvaggi e sanguinari che avevo sentito dire appartenere alle donne-briganti; tutte avevano parte nei beni dei rispettivi uomini. Venivano considerate da tutti come le ultime compagne della banda; non prendevano parte alla divisione dei riscatti e spesso venivano picchiate e trattate male dai loro uomini. Due di loro portavano fucili, le altre tre revolvers. Tutte queste donne avevano aghi, forbici, cotone, sete di varia tonalità, come pure pezzi di stoffa ed erano sempre pronte a fare qualsiasi riparazione fosse necessaria; quando arrivava una nuova scorta di fazzoletti (o maccatori come li chiamavano) si sedevano tutte insieme e lavoravano febbrilmente finché non avevano terminato. Durante un temporale smettevano di lavorare – in forza dei loro sentimenti religiosi – e ad ogni scoppio di tuono si facevano il segno della croce. La domenica era un giorno come gli altri per quanto riguardava il lavoro. Cercavo di spiegare loro che avrebbero dovuto riposarsi, ma sempre senza nessun risultato.

Scrisse Annie Warlters Moens nel suo diario:

Una donna dei briganti si è consegnata alle autorità. Era stata ferita per sbaglio da uno della banda. Malgrado avesse il braccio fratturato, i briganti l’obbligarono a restare con loro per sette giorni. Alla fine era così grave che poté andarsene e raggiungere Salerno, dove si presentò alle autorità. Mentre le amputavano il braccio rifiutò il cloroformio e si limitò a stringere i denti senza emettere un gemito. Ha riferito che mio marito sta bene, che i briganti hanno molta simpatia per lui perché cammina bene e non è di aggravio per nessuno, e che passa il tempo a schizzare paesaggi. Queste notizie sono meglio di niente.

La comitiva si spostava continuamente. Non c’erano luoghi sconosciuti per i briganti, in gran parte pastori e carbonai. In genere il cibo non mancava, venduto a caro prezzo da manutengoli, ma talvolta i rifornimenti erano difficili e ci si doveva accontentare di assai poco. Erano apprezzate le interiora degli animali, che facevano invece storcere la bocca all’inglese Moens:

È stato solo dopo un certo periodo che sono riuscito a mangiare questo cibo; innanzitutto, la curiosità e poi anche la fame mi hanno spinto a mangiare la mia porzione. Per questo motivo imparai ben presto quanto fosse poco saggio rifiutare qualcosa. A loro piaceva la carne ben cotta; quando questa era pronta veniva divisa in parti uguali tra i presenti; anche i prigionieri erano trattati come “compagni” termine che usavano sempre parlando tra loro. Mi resi ben presto conto che più presto prendevo la mia parte meglio era. Essi, poi, si servivano con le mani, chi mangiava più veloce andava meglio.

Nei ricordi del sequestrato il tema del cibo occupa un posto di assoluto rilievo ed è interessante leggere in successione una serie di sue considerazioni.

Era di ritorno con pezzi di pane di granoturco. È proprio vero il vecchio proverbio secondo il quale la fame è la migliore salsa. Mai un palato fine ha assaggiato una leccornia con più gusto di me che divoravo quelle croste secche: trovavo che avevano un sapore squisito.
Non mi sembrò vero quando scoprii in una tasca un pezzo del pane di mais grosso come una noce. Mangiato questo, rovesciai tutte le mie tasche e con somma gioia trovai un piccolo cavolo di tre giorni prima. Lo mangiai crudo: mi parve tutt'altro che cattivo. Infine saltarono fuori due teste d'aglio: una mi bastò, perché il sapore era fortissimo. Avevo fatto in fretta a diventare meno schizzinoso! Prima di finire in mano ai briganti il solo odore dell'aglio mi faceva venire la nausea, tanto più il sapore!
Li osservavo sempre con grande interesse quando facevano cuocere i maccaroni, non avendo altro da fare. Riempivano a metà il pentolone e mettevano l'acqua a bollire insieme con un pezzo di lardo accuratamente affettato con un coltello; aggiungevano sale e pepe e quando l'acqua cominciava a bollire il grasso era quasi sciolto. A quel punto la pasta, che era stata mondata da ogni impurità, veniva buttata e cotta finché diventava tenera.
In un punto trovammo un campo di cipolle: ne misi in tasca alcune e ne ricevetti altre in dono dai miei custodi. Mi sembravano squisite! Avevo sofferto assai della mancanza di vegetali: avrei voluto vedere la faccia dei miei amici più schizzinosi se mi avessero visto addentare i bulbi puzzolenti come se fossero state mele.
Tornarono con delle piccole patate ed una specie di piselli che chiamano ciceri; questa è la parola che tutti dovevano pronunciare la notte dei Vespri siciliani: quelli che non ci riuscivano venivano identificati come francesi e uccisi. È una strana specie di pisello. Avevo tanta fame che ne mangiai crudi una grossa quantità.
Seguii da vicino la preparazione della carne su alcuni spiedini appoggiati su bastoni di legno. La mangiavano appena cotta: a volte, quando la trovavano troppo cruda, la gettavano nella cenere calda e poi la mangiavano coperta di polvere. La pulivano su ciò che capitava, di solito i pantaloni. Quel giorno non ero fortunato: mi toccò solo una lingua, che dovetti estrarre da una testa appena scuoiata: era un lavoro nauseante, ma non c'era che fare di necessità virtù.
Durante la marcia trovai delle piante di lamponi, i cui frutti erano grossi e saporiti come quelli che avevamo nel nostro giardino a casa. Arrivarono altre pere, ma questa volta ancora dure e acerbe. Quando ebbi la sfacciataggine di sceglierne una matura venni aspramente rimproverato. Quando mi misi a sbucciarla mi dissero di non fare lo sprecone: anche se in Inghilterra le usanze erano diverse qui se lo avessi fatto un'altra volta non me ne avrebbero date più. Sovente mi davano la trachea di una pecora, obbligandomi a mangiarla prima di darmi pezzi migliori.
Il pane di segala aveva strane caratteristiche. Dopo due giorni, fermentando, si riempiva di una sostanza acquosa, trasparente. A questo punto, se non prendeva la muffa, si seccava e poteva durare per mesi, anche se, naturalmente, bisognava bagnarlo prima di mangiarlo. Agli altri piaceva poco, quindi, se ci fosse stato del pane diverso, avrebbero lasciato a me il pane di segala.
Tornarono con un grande fazzoletto pieno di patate. Il giorno seguente fecero bollire metà della carcassa della pecora, poi affettarono le patate e le aggiunsero al brodo, preparando in questo modo il miglior pasto che avessi mangiato da mesi.
Non perdevo mai occasione di dire loro che gli inglesi avevano bisogno di latte in abbondanza, e infatti quando riuscivano a procurarsene me ne davano più di quanto mi spettasse.

Quanto all’acqua, in montagna non era difficile procurarsene. La tenevano in otri «con un corno sulla punta ed un buco su di un lato che serviva per far entrare l’aria in quanto l’acqua doveva essere bevuta. Avevo osservato un grande mucchio di neve tra due bastoni, tenuto sospeso da un altro bastone attraverso il suo centro; l’acqua che scorreva era raccolta in borracce e poi bevuta». Nella stagione più calda, si soffriva la sete, essendo pericoloso avvicinarsi ai corsi d'acqua più frequentati.
Moens cominciò a scrivere accorate lettere a sua moglie ed al console inglese a Napoli, quasi sempre sotto dettatura di Manzo che controllava attentamente i testi. Non era comunque semplice mettere insieme la somma di 50.000 ducati, corrispondenti a oltre 200.000 lire dell’epoca. Per la trattativa si ricorse alla mediazione di Elia Visconti, padre di Francesco compagno di prigionia di Moens. In una lettera indirizzata personalmente al prefetto di Salerno, il sequestrato inglese chiese la sospensione delle ricerche e il ritiro delle truppe, per consentire i contatti tra la sua famiglia e la banda. Si parlò, allora e dopo, di un contributo delle autorità italiane per il pagamento del riscatto, ma le voci furono smentite. Il prefetto Sigismondi il 20 giugno 1865 scrisse così ad Annie Warlters Moens: «Il sottoscritto è dolente di dovere assicurare alla S.V. Ill.ma che non solo non è autorizzato a dare la più piccola somma per il riscatto dell’infelice inglese, che trovasi in mano dei briganti, ma per dovere di carica deve impedire con tutti i mezzi che sono in suo potere, acciocché non siano mandati loro denari ed altri oggetti». Anche sulla stampa apparvero smentite: «Il Governo italiano, verso i nazionali che pure pagano l’imposta per avere la propria sicurezza, ha il dovere di combattere il brigantaggio con ogni mezzo, non già di riscattarli a contanti se ricattati, né si può supporre che il Gabinetto Britannico gli avrebbe mai domandato che facesse pei sudditi della Regina più di quello ch’esso faccia pei propri».
Qualche spigolatura giornalistica: «L’inglese alle ultime notizie godeva salute eccellente e i briganti lo trattavano bene, compatibilmente alla sua dura posizione… Nessun indizio sul luogo ove la banda si aggira: si sa per altro che essa verte in grande penuria di viveri e di munizioni…La banda Manzo è affatto scomparsa dal Salernitano… Il signor Moens, quantunque estremamente delicato, continua a godere salute eccellente». Se il sequestrato avesse potuto rilasciare un’intervista avrebbe fatto, invece, questo racconto:

Io ero così affamato, che pregai mi si desse un po’ del grasso crudo, di tre settimane, che essi tenevano per ungersi gli stivali. Mi sforzai di trangugiarlo, dopo averlo masticato per un quarto d’ora, ma dopo un tal tempo era così vischioso come da principio. Tre pezzettini mangiai di quella robaccia spaventevolmente rancida. Io andavo ogni giorno divenendo sempre più debole, finché alla fine mi mancò la voce, e non potevo più parlare che col più dimesso bisbiglio; e da ultimo giacqui disteso per terra pregando che mi uccidessero.

Annie Warlters Moens s’era intanto stabilita a Napoli dove teneva contatti col console e la comunità inglese.

Stavo così male che i miei amici mi consigliarono di andarmene e accettai l’invito della mia gentile amica Mrs. T. di trasferirmi da lei ad Ischia. Ci imbarcammo quindi insieme sul misero piroscafo che giornalmente collega Napoli con Ischia. C’erano molti passeggeri, quasi tutti contadini: il mare era agitatissimo e quasi tutti stavano male. Il comportamento dei contadini italiani in una simile situazione basta già per far star male una gentildonna inglese, e quando mi lamentai col capitano mi rispose in modo vago, osservando che i napoletani erano una razza sporca perché non viaggiavano mai, mentre gli inglesi, al contrario, viaggiavano sempre e quindi avevano potuto migliorare il loro comportamento!

Nei vari trasferimenti Moens e i suoi carcerieri raggiunsero un luogo non lontano da Acerno.

Almeno 70 o 80 contadini passavano a non più di 300 iarde da noi ogni mattino ed ogni sera quando andavano e tornavano dal loro lavoro giornaliero; inoltre vedevamo compagnie e compagnie di soldati dal momento che andavano avanti e indietro tra Giffoni e Acerno. Il posto era ben scelto, perché i soldati non pensarono mai di guardare in una valle dove si andava ogni giorno a trebbiare il grano e a raccogliere mele. Osservavo il modo soddisfatto con cui le donne portavano pesanti fardelli, mentre gli uomini cavalcavano tranquillamente gli asini, che qui chiamano bestie; per contrasto pensavo alle contadine inglesi che sono desiderose di opporre la condizione del loro sesso in Inghilterra con quella delle loro sorelle “straniere”, mostrando una precisa predilezione per le condizioni di queste ultime, basata sulla affascinante eleganza esteriore con cui esse stesse sono state trattate da un francese o un italiano in una sala da ballo.

La forzata convivenza, protrattasi per più di tre mesi, favorì un curioso scambio di opinioni tra l'inglese e sequestratori. Moens era come attratto dalla primitività delle persone e dei luoghi. Significativo questo passaggio delle sue memorie:

I briganti erano sempre curiosi circa l’Inghilterra: si stupirono quando dissi che sul trono c’era una regina amata da tutti, e che non c’era nemmeno un solo brigante. Mi fecero domande circa la famiglia reale, l’esercito, i prezzi del cibo e così via, dichiarando che anche loro avrebbero voluto vivere in un paese dove il lavoro veniva compensato così bene. Era divertente vederli spalancare tanto d’occhi quando gli raccontai della California e dell’Australia, dove si trovava oro scavando la terra. Alla fine mi proposero di andarci tutti quanti con me come comandante. Li ringraziai dell’onore che mi facevano.

Altra insopportabile convivenza era quella coi parassiti: «Mi accorsi di ospitare dozzine di quei piccoli animaletti disgustosi il cui stesso nome mi fa rabbrividire nella mia terra pulita, dove solo una piccola percentuale della popolazione li conosce anche solo di nome. I briganti ne sono sempre pieni a causa della loro abitudine di non lavarsi e della difficoltà di ottenere abiti puliti».
Moens ricorda lo stupore dei briganti per il fatto che egli si orientasse con facilità. «Mi chiesero come era possibile che conoscessi così bene le direzioni, visto che ero uno straniero e che vedevo questi luoghi per la prima volta. Risposi che qualunque scolaro inglese avrebbe potuto fare altrettanto; che la posizione del sole al tramonto dava i punti cardinali e che il resto era facilmente deducibile. Sentii il commento: È molto talento». Quella capacità di orientamento dell'inglese mise però in sospetto i briganti. «Una volta presi un pezzo di carta e cercai di fare uno schizzo del magnifico panorama davanti a noi. I briganti mi stavano tutti attorno scambiandosi commenti sull'inglese che, secondo loro, era capace di fare tutto (li aveva lasciati esterrefatti la mia capacità di identificare i loro fucili e le loro pistole). Non approvavano tuttavia il mio nuovo passatempo, e due giorni dopo distrussero il mio schizzo e si impossessarono della mia matita».
Le settimane passavano e, infine, fu completato il pagamento del riscatto per un totale di 30.000 ducati, pari a oltre 127.000 lire. A pagamento avvenuto Manzo rilasciò regolare ricevuta. La somma fu ripartita tra i superstiti delle banda (alcuni componenti erano stati uccisi, altri erano morti per incidenti, né erano mancate le costituzioni spontanee). Il demone del gioco fece perdere ai meno fortunati il provento del reato, prima ancora di averlo riscosso.
La scena del rilascio di Moens assunse toni teatrali. Una guida aveva raggiunto con difficoltà la banda per riportare l'inglese a casa. Comparve anche la madre del capobanda con pane bianco e una piccola frittata, vera leccornia. Manzo chiese a Moens che cosa avrebbe riferito al prefetto a proposito della banda.

Gli risposi che avrei detto che Manzo e la sua banda di trenta uomini avevano sfidato un esercito di diecimila soldati e che lui aveva dimostrato di essere il più bravo. La mia risposta gli piacque e si fregò le mani per il compiacimento, regalandomi poi due anelli, che misi subito alla maniera dei briganti. Ignorando i visi profferti per un bacio, strinsi la mano a tutti: ci lasciammo così nel modo più amichevole. Consigliai a Manzo di non rapire più stranieri, perché questo sollevava grande scalpore su tutti i giornali del mondo, obbligando il governo italiano a mandare un numero tale di soldati che non avevano speranza di sfuggire alla cattura. Tutti i briganti mi auguravano buon viaggio e agitavano le braccia finché fummo in vista. Dopo due ore arrivammo al ruscello che scorreva sotto la collina dove avevo trascorso gli ultimi quindici giorni. Qui ci sedemmo all’ombra per riposarci, perché la vecchia signora si lamentava molto per la stanchezza e rimaneva sempre indietro: mentre eravamo lì arrivarono due contadini che si fermarono per fare due chiacchiere secondo la loro abitudine. Mi guardarono con enorme interesse, perché tutti sapevano che un inglese era stato rapito: espressero la loro solidarietà e sgranarono tanto d’occhi quanto sentirono l’enorme cifra del riscatto: era la più alta mai pagata. La vecchia signora mi fece mostrare loro gli anelli regalatami dai briganti. Chiaramente pensava che essere la madre di uno che aveva dimostrato una generosità così principesca tornasse a suo onore!

Moens la sera del 25 agosto 1865 arrivò nel paese di Giffoni Valle Piana, sempre in compagnia della guida e della madre di Manzo. Tutti volevano avvicinare l’inglese, con qualche sua preoccupazione: «Nelle province di Salerno e Avellino erano stati arrestati e incarcerati non meno di millecinquecento contadini sotto l’accusa di complicità con i miei rapitori. Mi sentivo assai a disagio per la paura che qualche loro parente potesse vendicarsi con un coltello o uno stiletto. Molte delle ragazze erano bellissime: mentre passavamo lungo il fiume tutte interrompevano il loro lavoro di lavandaie per guardare il barbuto straniero che era felice di poter finalmente apprezzare le grazie femminili».
Per prima cosa, William John Charles Moens chiese di fare un bagno caldo.

Bibliografia

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  • Piero Crociani, Guida al fondo brigantaggio, Ufficio storico SME, Roma 2004
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[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]

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