L’assistenza sociosanitaria in Campania durante l’età napoleonica

di Angelantonio Marcello

Introduzione

La ventata riformatrice dell’esperienza napoleonica influenzò tutta l’Europa e la penisola italiana, con modi e tempi diversi, non ne rimase immune. Nelle regioni del Nord si ebbero la creazione di due entità statali quali la Repubblica italiana prima ed il Regno d’Italia poi. Nel Mezzogiorno invece il Regno borbonico fu interrotto dal cosiddetto “Decennio francese” che vide l’avvicendarsi di due re: Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e Gioacchino Murat (1808-1815). Se nelle due compagini settentrionali la stagione napoleonica gettò il seme della successiva fase costituzionale, lo stesso non può dirsi per il Regno di Napoli, il quale dopo la restaurazione borbonica del 1815 attraversò un periodo di chiusura e di allontanamento verso gli ambienti liberali. La stagione delle riforme ebbe ripercussioni anche nell’ambito assistenziale, ed in questa sede si tratterà della situazione del Regno di Napoli durante l’Età napoleonica, quell’arco di tempo tra il 1806 ed il 1815.

La mendicità nella società napoletana

Già al tempo di Carlo di Borbone si avvertì la necessità di realizzare un luogo idoneo dove poter accogliere l’enorme massa di invalidi e poveri. Ciò aveva anche l’obiettivo di centralizzare il settore della beneficenza, e per ciò Carlo si ispirò al padre Filippo V, che in Spagna aveva adottato una politica volta all’istituzione di stabilimenti assistenziali affinché gli ospitanti stessi potessero contribuirne al mantenimento. Nel Mezzogiorno gli stabilimenti assistenziali erano sì diffusi sul territorio regnicolo, ma sul finire del Settecento il Galanti poneva l’accento sul degrado in cui versava il settore igienico-sanitario dalla Capitale all’ultima delle province, unitamente al regime di autogestione se non di vera e propria anarchia nella quale «nessuno si sentiva in dovere di rendere conto del proprio operato a nessuno». I Napoleonidi cercarono di porre un argine all’autogestione denunciata qualche decennio prima dal Galanti, con una serie di riforme mirate alla centralizzazione statale e, ispirandosi ai principi della Rivoluzione francese, cercarono di inquadrare la mendicità come un vero e proprio reato, punibile con il carcere. Tuttavia i Francesi non poterono non tenere conto della potente rete assistenziale del Regno, che mostrava i suoi tratti peculiari soprattutto a Napoli. L’avocazione al pubblico tesoro degli arrendamenti certamente assestò un duro colpo agli enti di beneficenza, ma i governi napoleonidi cercarono di ammortizzare con degli assegni statali, insieme ad altre concessioni provenienti da rendite dei monasteri aboliti. È pur vero che accanto alle donazioni, gli amministratori non di rado gonfiavano le cifre delle rendite soppresse per poter ricevere maggiori finanziamenti. Molti infatti furono i casi di governatori che lamentavano perdite non sufficientemente rimpiazzate dalle concessioni statali. In campo militare Giuseppe, nel suo breve regno, fece in tempo ad istituire un Consiglio di sanità per gli ospedali militari, mentre sottopose alle dipendenze del Ministero dell’interno gli istituti, conservatori, ospedali, soccorsi ed ogni altro stabilimento simile. Il binomio salute pubblica – Ministero dell’interno ebbe vita lunga, destinato a perdurare fino al 1958 quando nascerà il Ministero della sanità.
Una delle piaghe della società napoletana riguardava gli strati sociali più bassi. Mendicanti, vagabondi e prostitute affollavano le strade cittadine e della provincia costituendo una seria minaccia per l’ordine pubblico. Si decise allora di reprimere questo fenomeno con una legge del maggio 1808, nella quale si operava una distinzione tra mendicante valido ed invalido, nei confronti del quale si applicava maggior tolleranza. Se lo Stato napoletano si fece carico di coloro impossibilitati ad intraprendere una qualsiasi attività lavorativa, per quelli che invece preferivano l’accattonaggio alla vita operosa si riservava la repressione poliziesca, mediante l’obbligo di lavorare o l’espulsione dai territori del reame. L’intolleranza unita alla costrizione ad intraprendere un mestiere aveva radici lontane. Emergeva già nel decreto istitutivo dell’Albergo dei Poveri, dalle idee del Galanti che nella sua Descrizione geografica fece riferimento a «scuole di arti o fabbriche di manifattura da istituire nel Regno per allontanare così i poveri dalla capitale», e da due opere fondamentali che, inquadrandosi in un dibattito di respiro europeo, avevano offerto spunti per una serie di riflessioni anche nello Stato napoletano tali da orientare le scelte politiche dei Napoleonidi. La prima di queste fu il volume del 1805 scritto da Nicola Di Mattia Riflessioni sull’impiego de’ poveri, e de’ vagabondi e sul modo di estirparli dalla società civile relativamente al Regno di Napoli, in cui l’autore sosteneva a più riprese che solo il lavoro può redimere le masse degli oziosi e permettere allo Stato di tenerli sotto controllo efficacemente. La seconda, del 1806, fu la Dissertazione nell’impiego dei poveri di Filippo Rizzi, che focalizzava l’attenzione sulla politica di introduzione delle manifatture nei luoghi deputati all’internamento degli indigenti.
Gioacchino Murat estese nel 1813 il divieto di mendicare, emanato dal cognato Napoleone tre anni prima. Dispose altresì che i poveri dovessero essere internati nei depôts de mendicité. Si distinsero i mendicanti dai vagabondi, considerati dei veri e propri delinquenti secondo il Codice penale emanato nel 1812, che introdusse il reato di «vagabondità». Un’altra distinzione si operò per l’assistenza negli stabilimenti e per quella a domicilio. Nell’ottobre del 1808 Murat costituì a Napoli il Comitato centrale di pubblica beneficenza, pur cercando un compromesso con i privati e soprattutto con il clero, fino ad allora attore principale nel settore assistenziale. Il febbraio del 1809 segnò la nascita del Consiglio generale di amministrazione, detto «Consiglio degli ospizi», deputato all’amministrazione di tutti gli ospizi ed ospedali a Napoli e che sostituì il Tribunale Misto, frutto del Concordato del 1741 tra lo stato napoletano e la Chiesa.
Al tempo di re Gioacchino, nella Capitale esistevano «nove case di pubblica beneficenza»: il Reale Albergo dei Poveri e il San Gennaro dei Poveri per i vecchi ed i fanciulli, l’Annunziata per le oblate, i proietti ed i feriti, il Sant’Eligio per le oblate e febbricitanti, gli Incurabili per gli infermi cronici e le oblate, la Trinità per i convalescenti e la casa di Torre del Greco per i pazzi. Queste misure non dovettero produrre i risultati sperati se è vero che ancora nel 1814 Murat si vedeva ad ogni uscita pubblica attorniare da una folla sempre più crescente di poveri, «alcuni dei quali ignudi»: pertanto si decise a costruire un quartiere di 200 posti destinato ai meno abbienti e di aumentare la capacità dell’Albergo dei Poveri. La nuova visione medica, che probabilmente molto doveva alle denunce del medico rivoluzionario Domenico Cirillo, concepì la divisione degli infermi in base al tipo di malattia. Ciò portò nel 1814 all’apertura di un reparto per i ciechi nell’Ospedale della Pace, pubblicizzato attraverso l’opera di divulgazione delle autorità e soprattutto dei parroci. Benché la concezione dello Stato napoleonico fosse tendenzialmente anticlericale, durante il Decennio frequenti furono le collaborazioni Stato-Chiesa (ad esempio durante la campagna di vaccinazione antivaiolosa, di cui si parlerà in seguito), nonostante uno dei primissimi provvedimenti del nuovo sistema napoleonico fosse stato la soppressione degli ordini religiosi e l’avocazione allo stato dei rispettivi arrendamenti.
La beneficenza per i sovrani offrì anche ottime opportunità di propaganda politica. In occasione di compleanni, onomastici ed eventi speciali la Corona elargiva spesso elemosine, maritaggi, oppure vestiari di vario genere. Particolarmente scenografica fu l’elargizione del marzo 1811, quando il re e la regina ordinarono di allestire un carro con al centro la statua della Beneficenza, seguito da 33 carretti di coperte, materassi e mutande in favore dell’Annunziata, e scarpe, calzette e berretti per il S. Gennaro ed il Reale Albergo dei Poveri. Un’altra donazione, ugualmente risalente al 1811, fu raffigurata dal pittore Achille Gigante nel dipinto Banchetto offerto ai legionari da Gioacchino Murat in occasione della costituzione dell’esercito nazionale e della posa della prima pietra del Foro Murat, l’odierna Piazza del Plebiscito. Alcuni provvedimenti riguardarono anche l’infanzia abbandonata, con il divieto di utilizzare il cognome Esposito per contrassegnare i trovatelli, giudicato un segno «che impedisce talvolta i vantaggi che potrebbero avere nello Stato Civile» in quanto «non è consentaneo alla ragione che tali individui soffrano danno per motivi a loro non imputabili». In virtù del predetto cognome, si cominciarono ad adottare cognomi che evocassero le caratteristiche somatiche dell’esposto, le condizioni fisiche, o il periodo dell’anno in cui pervenivano negli istituti.
Alla politica assistenziale si connesse indirettamente quella che la Salvemini ha soprannominato «la questione spagnola», che divenne sempre più gravosa man mano che peggioravano i rapporti diplomatici tra Impero francese e Spagna, il cui apice si raggiunse con gli avvenimenti del 1808. Tale congiuntura internazionale ebbe delle ripercussioni anche nel Regno, stato satellite dell’Impero, con la soppressione dell’Ospedale di San Giacomo degli Spagnoli. Il San Giacomo era uno dei nosocomi più importanti della Capitale e rientrava nel novero di una serie di strutture quali luoghi pii, monti di pietà, ospizi che gli Spagnoli fin dalla loro venuta avevano messo in piedi nel corso dei secoli in tutto il Mezzogiorno. Alcuni di questi enti soccorrevano solo bisognosi di comprovata origine spagnola, come il monte di Domenico Sandalines, altri invece videro progressivamente estendere il loro ambito di competenza ben oltre i limiti di quest’ultimo requisito, come lo stesso San Giacomo, il quale per volere di Carlo di Borbone cominciò ad offrire assistenza anche ai bisognosi napoletani. I gravi fatti di Madrid fecero precipitare i rapporti tra Napoleone e la Spagna e provocarono una reazione a catena dapprima in Francia e successivamente in tutti i territori sottoposti al dominio napoleonico, tra cui il Regno di Napoli. Ciò si tradusse con la confisca dei beni agli spagnoli, accusati di collaborazionismo con i connazionali ribelli. Un primo decreto, datato 12 gennaio 1809, sequestrò i beni ad alcuni «individui spagnoli», a cui fece seguito, il 19 dello stesso mese, un secondo che estese la confisca a tutta la comunità spagnola.
L’istituzione di strutture ospedaliere specializzate nella cura e nell’accoglienza di determinate categorie fu provato dall’introduzione del Santa Maria della Fede per le meretrici, e della Reale Casa dei Matti di Aversa per i malati mentali.

La vaccinazione antivaiolosa a Napoli

Nel Mezzogiorno napoleonico come per l’Italia settentrionale ebbe successo il metodo di Edward Jenner, un medico anglosassone che aveva scoperto che inoculando vaiolo bovino nell’organismo dell’uomo costui diventava immune dal contrarre la malattia. Nel 1800 Ferdinando IV e la Chiesa napoletana accolsero il dottor Joseph Marshall, medico della flotta inglese, che in accordo con Jenner doveva fare tappa a Napoli durante la sua spedizione sanitaria nel Mediterraneo. Nelle sue lettere Marshall descrisse lo stato d’animo della moltitudine di uomini, donne e bambini che, su esortazione dei parroci, si recavano nei luoghi preposti per la vaccinazione, certi che questa pratica fosse «una benedizione divina, benché scoperta da un eretico». Molto presto la pratica della vaccinazione, a partire dal 1802, divenne gratuita.
Nel 1807 Giuseppe Bonaparte istituì un Comitato centrale e dei Comitati periferici. Si prestò maggiore attenzione anche nel somministrare i vaccini a domicilio, insieme ad elemosine, zuppe, maritaggi ed altre cure sanitarie con l’introduzione di un Comitato centrale di beneficenza, nel 1808, e altre commissioni vennero create nei capoluoghi di provincia e di circondario. Nel 1810, quando scoppiò un’epidemia di vaiolo, il governo ricorse alle omelie degli ecclesiastici, e il Monitore napoletano lanciava continui appelli. La letteratura correva in soccorso del governo anche quando si fondò il periodico mensile Opuscoli di Vaccinazione, che poco dopo mutò il nome in Giornale di Vaccinazione, affidato alla direzione del professore di fisiologia dell’Università di Napoli e «segretario perpetuo» del Comitato centrale Antonio Maglietta. Nel decennio 1808-1818 su 1.872.156 nati ne furono vaccinati 280.035, ovvero soltanto il 15% del totale. Per quanto prodigioso, continuava a sottoporsi alla vaccinazione solo una fetta ridottissima della popolazione, nella quale persistevano ancora antiche credenze e superstizioni.

Ospedali ed istituzioni di beneficenza

I Francesi diedero particolare impulso alle strutture assistenziali e Napoli fu la città su cui si riversarono i maggiori finanziamenti. Al tempo di re Giuseppe esistevano nella Capitale molti ospedali ed enti di beneficenza: alcuni di loro furono mantenuti, mentre altri vennero soppressi. Nel settembre 1809 Murat ufficializzò l’esistenza di nove istituzioni, quali l’Albergo dei Poveri, l’Annunziata, il S. Eligio, la Cesarea e la Pace, gli Incurabili, la Trinità e la «casa della Torre del Greco».
Il San Gennaro era il più antico e ad esso venne accorpato l’ospizio di Sant’Onofrio, il quale aveva la singolare rendita proveniente dai compensi per l’utilizzo degli anziani come accompagnatori dei carri funebri, vestiti con la divisa dell’ospizio. Nel Decennio l’amministrazione venne ridimensionata, con gli amministratori che passarono da sette a tre.
La Real Casa dell’Annunziata, famosa per la ruota dei bambini esposti, era allo stesso tempo chiesa, ospedale e conservatorio. Di antichissima fondazione, nacque come ospedale nel 1304 ma i Napoleonidi nel 1810 soppressero questa funzione. Dal 1808 cominciò ad inviare i fanciulli idonei all’Albergo dei Poveri, mentre le fanciulle «giunte all’età da essere ammaestrate un po’ nel lavoro, passavano nel cosiddetto Conservatorio grande. Andando poi a marito ricevevano in dote da cento a duecento ducati; e per queste doti la Casa non pagava meno di 10.000 ducati all’anno». Durante il periodo francese l’istituto attraversò una grave crisi finanziaria e sanitaria che causò il decesso di numerosi neonati. Lo Stato cercò di rimediare con l’introduzione di una rendita di 73 mila ducati, stanziata nel 1815, ma già una relazione del 1811 riferiva del miglioramento generale delle condizioni igienico-amministrative dell’ospizio, che si era:
anche ampliato coll’aggregazione del vasto locale, ch’era addetto alle Officine del dismesso Banco di A.G.P. - i projetti sono stati classificati, e disposti in diverse Sale. Il vantaggio di questa classificazione è incalcolabile. Separati i sani dagl’infermi, e segregati anche in di-verse classi gli infetti da morbi contagiosi, da quelli attaccati da malattie ordinarie, si è otte-nuta la vita di moltissimi Individui: può dirsi, che la morte risparmia almeno la metà di quelli che soleva prima mandare alla tomba.
Un contributo rilevante per il miglioramento delle condizioni generali degli ospizi fu apportato dalle Suore di Carità di Santa Giovanna Antide Thouret. Volute da Murat, le suore francesi giunsero a Napoli nell’ottobre del 1810, dopo essersi diffuse capillarmente in tutta la Francia nei primi 11 anni di attività con la missione principale di educare le giovani non abbienti e di visitare i malati a domicilio. Le suore presero servizio presso l’ospedale degli Incurabili, ma l’ingente mole di lavoro le costrinse a chiedere il supporto di altre consorelle dalla Francia. Le competenze acquisite presso le strutture d’oltralpe le rendevano particolarmente adatte per questo tipo di prestazione, tanto è vero che svolsero il loro compito egregiamente, capaci di coniugare il sapere medico alla divulgazione. Istruirono infatti anche altre consorelle le quali al termine del periodo di formazione furono mandate all’Educandato Reale Principessa Maria Pia a S. Marcellino. L’attività delle suore era regolata dalle Règles et Constitutions Génerale della madre superiora, in cui un primo capitolo era dedicato all’accompagnamento dei medici nelle visite, alla somministrazione delle cene prescritte, al controllo degli effetti dei medicinali sui pazienti e alla vigilanza dell’ordine e della pulizia delle sale e degli strumenti sanitari. Un secondo capitolo dava indicazioni sull’orario per l’alzata degli ammalati, per la somministrazione del vitto, per le visite mediche, il riposo notturno, la Messa e le pratiche di pietà. Un terzo ed ultimo capitolo suggeriva il modo in cui compilare correttamente il libro dei conti su cui registrare le spese. Oltre alla natura medica, il servizio che offrivano fu anche di carattere spirituale, con la spiegazione delle vite dei santi al fine di aiutare gli ammalati ad accettare ed a vivere cristianamente la malattia e la morte.
L’Ospedale di S. Eligio Maggiore fu invece soppresso nel 1808, e parte della fabbrica venne convertita in caserma. Nel 1811 fu la volta dell’Ospedale la Cesarea. Una profonda riorganizzazione pare che interessò l’Ospedale degli Incurabili, dove una relazione del 1811 riferiva che vi erano state predisposte «due grandi Corsie che gareggiavano colle più belle degli Ospedali d’Europa».
L’Ospedale della SS. Trinità dei Pellegrini e Convalescenti nel 1806 subì il sequestro dei beni. L’ospedale tuttavia continuò a funzionare grazie al patrocinio di Michele Filangieri, fratello di Gaetano, finché il Ministero dell’Interno non assegnò all’istituto una sovvenzione annua di duemila ducati. Esso accolse i malati del soppresso S. Giacomo degli Spagnoli. La «Casa della Torre del Greco», conosciuta anche come SS. Trinità delle monache, fu istituita nel 1808 nel preesistente monastero e, prima della fondazione del manicomio di Aversa, aveva un reparto specifico per i «matti».
Un discorso diverso va affrontato per gli ospedali militari: Giuseppe e Gioacchino curarono molto l’organizzazione di questa tipologia di nosocomio, in linea con gli altri governi napoleonidi. Data la notevole partecipazione dei medici e del personale sanitario alla Rivoluzione del 1799, Ferdinando di Borbone decise di sopprimere gli ospedali militari, disponendo che i soldati venissero curati nelle strutture civili già esistenti, assistiti dal personale proveniente dai soppressi ospedali. Nel 1807 re Giuseppe impose un nuovo regolamento nel quale stabilì orari e comportamenti ben precisi da osservare per medici, cerusici e speziali. Furono particolarmente sottovalutati i rognosi, in quanto vi si destinava un solo medico per un massimo di 600 degenti, quando per le altre categorie il personale sanitario era di gran lunga maggiore e variava a seconda del loro numero. Insieme ai sifilidici si cercò di riservare degli ospedali a seconda delle possibilità logistico-economiche. Contemporaneamente, si procedette ad una classificazione dei nosocomi militari in tutto il Regno: quelli istituiti ex novo furono quelli a Piedigrotta per la marina, a Montecalvario con la SS. Trinità delle monache e nel quartiere Avvocata con il SS. Sacramento per l’esercito.
Nell’agosto 1807 nacque l’Ospedale Meretricio di S. Maria della Fede, ubicato nell’omonimo complesso e dedicato esclusivamente alle prostitute portatrici di malattie veneree. Fu posto sotto la diretta dipendenza della polizia che, oltre a redigere il regolamento interno, ne sovvenzionava le spese di mantenimento.
Un discorso a parte meritano i monti dei poveri.
Il Monte dei Poveri Vergognosi fu abolito nel 1808: la chiesa annessa spogliata degli oggetti più preziosi e adibita a magazzino.
Il Pio Monte della Misericordia, si occupava di assistere nelle sette opere di misericordia: l’opera degli infermi, l’opera per la redenzione della colpa di inconsapevoli fanciulle, l’opera di inviare donne nel ritiro di Mondragone ed in altri conservatori, l’opera di visita ai carcerati, l’opera della visita ai poveri infermi, l’opera di seppellire i morti e dei bagni termali gratuiti a Casamicciola. Ciascuna delle sette opere era affidata ad un deputato che restava in carica tre anni e sei mesi. Per effetto della legge sull’avocazione degli arrendamenti, il Monte perdette 50mila ducati all’anno, rimpiazzati dal governo con appena 8mila ducati. Nonostante alcuni provvedimenti di Murat come quello dell’aprile 1812 di destinare al Monte le rendite dei soppressi monti di famiglia, la vita del Pio Luogo si trascinò tra queste difficoltà fino al 1815 quando, con il ritorno della vecchia dinastia, rientrarono 20mila ducati provenienti dalle «case de’ beni ecclesiastici amministrate dalla Corona».
Riguardo gli istituti per sole donne, molti furono i conservatori e i ritiri che furono riorganizzati tramite accorpamenti e ridistribuzioni. Nell’aprile del 1813 Murat decise che il Conservatorio di SS. Giuseppe e Teresa avrebbe accolto le recluse degli Incurabili, mentre le oblate del conservatorio si sarebbero unite al Conservatorio delle Teresiane. Stessa sorte per le oblate del Ritiro di Mondragone (adibito da allora in avanti esclusivamente alle separate e alle vedove), le quali passarono al Conservatorio del Rosario di Portamedina, le di cui recluse furono distribuite tra il Conservatorio del Rosario al largo delle Pigne e del Suor Orsola. Il Conservatorio della Carità fu invece accorpato al Conservatorio di Montecalvario, insieme alle donne ed i suoi beni.

La cura della follia e le Reali Case dei Matti di Aversa

Negli anni ‘90 del Settecento in Francia le teorie del medico Philippe Pinel produssero una certa risonanza nel panorama della cura delle malattie mentali. Partendo dal presupposto che la pazzia fosse una malattia a sé stante, Pinel consigliava l’internamento in appositi istituti concepiti per il ricovero ed il trattamento di questa patologia, di contro agli «istituti misti» che non solo non permettevano una diretta osservazione del paziente ma che, per il loro carattere promiscuo, minavano la sua integrità fisica e morale. La dottrina pineliana nel Mezzogiorno trovò espressione negli scritti e nell’opera di Gian Maria Linguiti, al quale secondo qualcuno si deve la nascita della psichiatria napoletana. Nella sua opera principale, Ricerche sopra le alienazioni della mente umana, colui che sarebbe in seguito diventato il direttore del manicomio aversano scrisse che la pazzia consisteva nelle alterazioni delle attività cerebrali, in quanto l’eccesso produceva la mania e la debolezza causava la malinconia.
Le riflessioni napoletane sulla follia e sul concetto pineliano di «istituto speciale» influenzarono le scelte governative orientandole alla realizzazione delle Reali Case dei Matti di Aversa. Tuttavia l’istituto aversano fu solo l’ultimo atto di una serie di provvedimenti riguardante il tema, poiché prima della sua realizzazione, i Napoleonidi già avevano affrontato l’alienazione con una serie di provvedimenti. Uno di questi fu quello del 1809 in cui Murat decise di chiudere dopo tre secoli e mezzo la sezione dei pazzi dell’Ospedale degli Incurabili e di inviare i degenti nella Casa di Torre del Greco, adibita esclusivamente per loro, salvo poi farvi nuovamente ritorno una volta constatatane l’impraticabilità.
I provvedimenti sopra citati furono concepiti senza il contributo di veri e propri medici alienisti, per via dell’assenza di una formazione specifica nel campo psichiatrico. I motivi di questa carenza sono da individuare in vari fattori, tra cui l’abolizione del Collegio Medico Cerusico (che, ripristinato da Murat nel 1810, avviò la sua attività soltanto agli inizi del 1813), e nelle forti penalizzazioni che aveva subito l’Università conseguenza della breve esperienza repubblicana del 1799, prima di ritrovare nuova linfa soltanto con l’arrivo dei Napoleonidi.
In un contesto di tal genere nacquero le Reali Case dei Matti di Aversa, con decreto dell’11 marzo 1813, a cui seguì l’apertura della sezione femminile con decreto del successivo 10 giugno. Alcune statistiche relative al primo decennio di attività e riportate in uno studio di Luigi Parente hanno rilevato un andamento del tutto diverso rispetto alle iniziali aspettative. Pur ricoprendo un arco temporale che va dagli anni della seconda Restaurazione alla metà del XIX secolo, in esse emergono delle problematiche legate a fattori comunque riconducibili ai primi anni di attività dell’Ospedale, nell’ultimo biennio del Decennio francese. Su un totale di 1.725 assistiti, la media annua di ammissione fu di 175,5 individui, dei quali uno su quattro agricoltori, mentre la media anagrafica si aggirò tra i 20 e i 30 anni. L’origine della malattia era dovuta a cause più morali che fisiche, individuabili nella situazione di estrema miseria che investiva gli strati sociali più umili, soprattutto nelle campagne, con la mortalità che colpiva un uomo su quattro e che raggiungeva il picco durante il periodo invernale. La maggior parte dei malati proveniva da Napoli e da Terra di Lavoro. Inizialmente i degenti venivano classificati come «dementi», perché le certificazioni mediche venivano stilate dai medici condotti dei comuni del Regno il più delle volte impreparati in campo psichiatrico per il discorso di cui sopra. A partire dagli anni ‘20 dell’Ottocento i degenti cominciarono ad essere differenziati per patologie. Il regime alimentare dei pazienti aversani prediligeva cibi poco aromatici e piccanti, con un trattamento speciale per i «matti a pagamento» che beneficiavano di un menù differente.
I due decreti istitutivi stabilirono un bilancio di 44mila lire annui per la sezione maschile e di 22mila per la femminile. Le somme non sempre furono versate in tempo, poiché le rendite venivano prelevate direttamente da quelle dei luoghi pii sottoposti ai Consigli generali degli ospizi del Regno. Questi ritardi innescarono una serie di emergenze finanziarie che misero in forte difficoltà il direttore Linguiti, il quale non poteva fare affidamento ad una esauriente autonomia di bilancio.
L’esperienza nuova di Aversa fu largamente pubblicizzata dagli organi di stampa. Il Monitore delle Due Sicilie, in occasione dell’inaugurazione, enfatizzò così: «Sua Maestà, […] ha voluto che i secondi [i dementi] fossero trasferiti in Aversa [dall’Ospedale degli Incurabili] nel convento della Maddalena, ove questa parte infelice dell’umanità potrà essere meglio assistita, e meglio amata, per esser richiamata alla ‘ragione perduta’».
Gli elogi del Monitore rifletterono gli entusiasmi delle autorità, tra cui il Ministro dell’interno Zurlo ma, sebbene le Reali Case dei Matti di Aversa fossero il frutto di progressi scientifici nell’ambito psichiatrico, i problemi di natura finanziaria, gestionale e, per di più, igienica di cui si è detto ne minarono il corretto funzionamento fin dai primi anni di vita.

La condizione femminile

L’azione riformatrice dei governi francesi incise di poco sugli sviluppi della condizione femminile nel Mezzogiorno. Uno degli interventi dei governi fu l’istituzione di veri e propri opifici. Si sperimentarono attività manifatturiere con lo scopo di generare delle entrate finanziarie per gli istituti e di contribuire alla crescita morale e professionale delle internate. Sebbene si cercò da parte dello Stato di seguire il precedente solco tracciato dai Borbone, gli enti privati (istituti, ritiri, conservatori) furono quelli che subirono i maggiori cambiamenti. Per effetto del Concordato firmato nel 1741 da Carlo di Borbone e papa Benedetto XIV questi enti furono sottoposti alla giurisdizione di «tribunali misti» (in cui gli ecclesiastici occupavano un ruolo preponderante); con l’arrivo dei Francesi la Chiesa napoletana continuò a mantenere un ruolo considerevole curando le anime delle recluse, sebbene fossero stati introdotti i Consigli degli ospizi, facenti capo al Ministero dell’interno.
A Napoli i conservatori raccoglievano donne di tutte le età e di diverso status sociale: donne nobili oppure dall’onore perduto o compromesso, tutte aventi in comune l’assenza della famiglia come punto di riferimento. Amministrati il più delle volte dalle stesse recluse, questi enti godevano di una forma di autogoverno. Per tale motivo, quando nel 1810 si costituì una «Commissione temporanea» con l’incarico di riferirne al Ministero dell’interno la situazione economica e le vicende interne, si originarono delle accese polemiche. Non rari furono i casi di preti e superiore (che svolgevano anche il doppio ruolo di rappresentanti delle oblate), che si rifiutavano di riconoscere l’autorità della Commissione, che con tutta risposta procedeva cautamente nel rapportarsi con loro.
Ciascun istituto, oltre ad ospitare le recluse, ricorreva a tutta una serie di figure professionali interne (come il maestro o la maestra, impiegati, facchini, medici, portieri), ed esterne (come fornitori, operai ed architetti per interventi di manutenzione). Ciò spesso a tutto vantaggio degli amministratori, i quali ne guadagnavano credito e potere clientelare. Il governo francese, consapevole degli inconvenienti che potevano scaturire da simili provvedimenti, agì cercando di garantire la continuità dei conservatori, nonostante l’impoverimento generale.
Nel 1808 Giuseppe predispose un controllo per il ritiro delle pentite, affidato all’abate Iossa e che fu apertamente osteggiato dagli amministratori locali. Alla fine l’inchiesta rivelò un certo degrado, con le recluse costrette a mendicare per le strade per via delle gravi carenze generali di cui soffrivano.
La nuova Commissione per le attività manifatturiere voluta da Murat nel 1810, fu il primo intervento del governo volto alla condizione femminile. In linea con i principi illuministici e napoleonici, tracciò la via per risollevare le sorti economiche degli istituti e il tenore di vita delle internate. Infatti le nuove indicazioni prevedevano l’introduzione di manifatture nei luoghi scelti, anche se in pratica furono pochi i casi e gli esperimenti si rivelarono scarsamente redditizi.
L’altro settore nel quale mise mano il governo napoleonico fu quello della prostituzione. Furono stabilite nuove disposizioni per la polizia al fine di ottenere un maggior controllo del fenomeno. Nell’agosto del 1807 fu istituito l’Ospedale meretricio di Santa Maria della Fede, un ospedale per le malattie veneree di natura diversa da tutti gli altri per l’internamento forzato delle donne, sottoposto direttamente al controllo della polizia. In questa nuova istituzione coesistevano differenti modi di rapportarsi alle pazienti: della scienza medica, del controllo poliziesco, e delle prediche ecclesiastiche, queste ultime cariche di simbolismo religioso teso alla redenzione delle prostitute, le quali simboleggiavano per eccellenza agli occhi della Chiesa la negazione dei valori morali.
Per l’educazione delle fanciulle e l’assistenza femminile Murat si avvalse dell’apporto delle Suore della Visitazione e naturalmente delle già citate Suore della Carità. Queste ultime dalla Francia giunsero a Napoli nel 1810 portando con sé nuovi metodi educativi. Di fronte al forte analfabetismo cittadino, frutto di secoli di immobilismo scolastico che aveva riguardato il Mezzogiorno tra l’età del vicereame spagnolo e la dinastia di Carlo di Borbone, madre Thouret chiese l’autorizzazione per l’apertura di scuole gratuite per fanciulle indigenti, da collocarsi in ogni parrocchia. L’analfabetismo era stato una piaga già affrontata da re Giuseppe che, con il decreto dell’agosto 1806 impose a tutti i comuni regnicoli l’assunzione ed il mantenimento di uno o più maestri per l’istruzione elementare dei fanciulli. Nonostante questi provvedimenti e nonostante l’azione energica proseguita da Murat, l’alfabetizzazione femminile incontrò non poche opposizioni, sia da parte dei genitori delle stesse fanciulle, intrisi di «pregiudizi, poiché essi ignoravano di quale utilità poteva essere per le loro figlie il saper leggere, scrivere, calcolare», che da parte delle oblate che già avevano avuto modo di manifestare la loro ostilità. Fu lo scontro di due scuole di pensiero: l’uno portatore di «contatti con tutti gli ambienti sociali», l’altro che aveva «come proprio valore supremo la chiusura fisica e mentale rispetto al mondo esterno – non conoscerlo è il loro massimo vanto». La fondatrice Thouret a tal proposito in un memoriale al Ministro dell’interno Zurlo non mancò di rassicurare, riguardo all’insegnamento nelle giovani da parte delle suore, sull’acquisizione delle virtù morali e civili per assumere il loro ruolo come spose e madri, tramite l’avviamento ai lavori femminili necessari all’economia domestica. Un aspetto questo di non secondaria importanza se si considera il fatto che, negli altri ricoveri femminili dove si svolgevano lavori simili, ciò avveniva «più per impegnare il tempo delle recluse, ed eventualmente contribuire al sostegno economico dell’istituto, che non per favorire l’apprendimento di abilità e competenze necessarie alle assistite per un loro più efficace reinserimento nella famiglia e nella società».
Questi due stili di vita, nonostante l’oblatismo non potesse essere riconducibile a nessun ordine religioso, probabilmente traevano la loro origine da due concezioni diverse della religiosità: quella del frate e quella del monaco. Questa distinzione si fece netta nel corso del Medioevo: al frate corrispondeva la concezione di Dio come padre misericordioso disposto a perdonare i penitenti, unita ad un’attività evangelica da svolgersi tra gli uomini del mondo sull’esempio di S. Francesco; al monaco invece coincideva la visione di Dio come giudice, assolutore dei redenti e castigatore dei peccatori, a cui faceva da contraltare l’assoluto isolamento dal mondo, visto come fonte di corruzione e di peccato. Per le loro caratteristiche, le oblate dunque si rifacevano allo stile di vita monacale e le suore a quello francescano.
Al decreto del 1806 ne seguì un altro del gennaio 1808, questa volta voluto da Murat, che istituiva una scuola primaria pubblica nella Capitale, con cui i Napoleonidi ribadirono la concezione tradizionale della donna quale madre e moglie, strettamente connessa a quel nucleo domestico in cui le «arti donnesche» a cui si faceva riferimento nel testo della legge erano indispensabili. Tuttavia si verificarono difficoltà nell’arruolamento della nuova figura della maestra pubblica, poiché molte donne alfabetizzate per via dei forti pregiudizi si sottraevano dal ricoprire questo incarico, nonostante i lauti compensi parificati a quelli dei colleghi uomini.
Ma è anche vero che le donne, in special modo le fanciulle da marito, ebbero un ruolo chiave nella politica propagandistica francese. In occasione di particolari eventi come compleanni ed onomastici, non mancarono episodi in cui, tramite cerimonie pubbliche, si distribuivano per volere diretto del re le doti alle giovani donne selezionate o sorteggiate. Il giorno dell’onomastico di Giuseppe Bonaparte, il 19 marzo del 1807, si sorteggiarono 80 fanciulle, tra le orfane nubili più bisognose, a ciascuna delle quali venne assegnata una dote (maritaggio), che per la benevolenza del sovrano venne aumentata. Caso analogo avvenne al compleanno di Murat, il 16 marzo del 1809, quando sfilarono su quattro carri allestiti cento ragazze alle quali vennero distribuite doti.
Nel complesso la situazione sopra descritta, con tutte le polemiche e gli scontri che ne seguirono, nulla tolse ai meriti che ebbero i Francesi. Fu grazie a loro che lo Stato in qualche modo si pose al di sopra delle parti e, per mezzo del Ministero dell’Interno, si ergeva a controllore e regolatore degli aspetti più impellenti del mondo femminile quali la beneficenza, l’istruzione e la sessualità.

Il Reale Albergo dei Poveri

Nel Decennio francese il monumentale istituto fondato per volere di Carlo di Borbone a partire dal 1751, divenne oggetto di riassetto amministrativo, vide aumentare notevolmente il numero dei reclusi e vi si favorirono la nascita e l’implemento di nuovi mestieri ed attrezzature, anche se subì una forte crisi economica che ne mise in discussione la sopravvivenza.
Dal punto di vista amministrativo, uno dei primi decreti del neo-arrivato re Giuseppe fu quello del marzo 1806 che predispose una giunta per la supervisione della struttura. Il sovrano ridusse il numero dei governatori da 12 a sei, i quali dovevano essere nominati direttamente da lui, e come requisito fondamentale fu richiesto integrità morale ed attitudine alle opere filantropiche. Questa fu un’altra manovra che servì a porre sotto il diretto controllo statale la gestione economico-amministrativa dell’ospizio, evitando prese di posizione ed iniziative personali.
L’Albergo fu uno dei luoghi preferiti per le sperimentazioni e gli sviluppi di progetti industriali. I Napoleonidi sostennero l’imprenditoria napoletana, fornendo molto spesso locali e manodopera a basso costo mediante convenzioni e leggi. La concezione di inserire attività lavorative all’interno di simili stabilimenti (e il Real Albergo era il primo fra tutti), nasceva da un dibattito europeo che ebbe seguito anche nella capitale napoletana e di cui si è fatto cenno nel precedente paragrafo.
Nel 1808 a Giuseppe Morina, proprietario di una fabbrica di polveri e salnitro all’Arenella, dietro sua richiesta fu concesso l’impiego di 20 giovani i quali sarebbero stati retribuiti cinque grana al giorno, quando una normale retribuzione si aggirava in media sui tre carlini. Nel 1809 l’Albergo invece si prestò ad essere una fabbrica di berretti, quando alcuni mercanti levantini chiesero ed ottennero 25 donne e sei ragazzi per poter produrre berretti di lana. Si avviò così la scuola dei berretti levantini e della bambagia per l’istruzione dei reclusi, che ricevevano una paga di due grana e mezzo per ogni berretto prodotto. Nel maggio 1810 ad Andrea Giannini, Luigi Sava e Michele Scotto fu permesso di realizzare nell’Albergo la Real Fabbrica Normale di Lanificio, una vera e propria attività manifatturiera, concepita principalmente per rifornire panni al Regio Esercito, dove metà degli operai proveniva dall’ospizio. Furono agevolati a tal punto da spendere solo per l’affitto, gli acquisti di nuovi macchinari e le eventuali ristrutturazioni. La metà degli impiegati era formata da reclusi, 100 per la precisione, che veniva ricompensata con vitto e vestiario senza ricevere alcun salario.
La scelta di affidare a privati la gestione delle attività manifatturiere fu dovuta al fatto che i finanziamenti statali non furono sufficientemente congrui al risanamento generale dell’Ospizio. Gli imprenditori trassero benefici non solo per via di una manodopera gratuita o comunque sottopagata, da sgravi fiscali e da incentivazioni di vario genere, ma lo Stato non di rado garantì loro anche un mercato sicuro, poiché le attività nascevano come fornitrici ufficiali di vari organi e stabilimenti statali (esercito, prigioni e ospedali su tutti). In sostanza, le arti comunque furono particolarmente incentivate dai Francesi tanto da lasciare, nei primissimi anni dopo la Restaurazione, nel 1817, un fatturato derivante da questo tipo di attività che ammontava a più di 12800 ducati.
Un’altra opportunità per i reclusi fu la scuola per trombettieri, pifferai e tamburini. Coloro che non dimostravano di avere attitudine per le arti meccaniche venivano istruiti nella scuola interna all’Albergo per essere reclutati poi, terminato l’apprendistato, nell’esercito.
Gli internati, anche per via di queste scelte gestionali, aumentarono considerevolmente, passando dai 1.700 circa del 1807 ai 2.329 del 1811.
All’incremento delle arti, che lasciava presagire un certo ottimismo per gli sviluppi futuri, tuttavia facevano da contraltare problemi finanziari e di natura politica. Se l’affidamento delle manifatture ai privati colmava nel bilancio l’insufficienza delle concessioni statali, l’avocazione al pubblico tesoro degli arrendamenti assestò un brutto colpo per l’economia dello stabile. Gli arrendamenti riguardavano le imposte riscosse dai privati e costituivano una delle rendite principali. Il sostegno offerto dal governo mediante alcuni assegni a cadenza mensile riuscì solo in parte a risolvere la questione, in quanto questi non bastavano a rimpiazzare le antiche rendite soppresse ed accorpate dallo Stato. Le insufficienze finanziarie gravarono molto sul bilancio, tanto è vero che gli amministratori dell’Albergo chiesero di poter rilasciare cento reclusi a settimana a titolo di sgravio dalle spese. La crisi si ripresentò nuovamente nel 1809 quando, nonostante Murat avesse promesso il finanziamento di 20mila ducati, nulla arrivò di quella somma, come ebbero modo di lamentare i governatori. I servizi per gli internati che ricevettero le maggiori decurtazioni furono il vitto e l’alloggio. Il menù giornaliero fu ridotto al di sotto del normale standard di alimentazione. Già nel 1805 c’era stata una battuta d’arresto, con i pasti che diminuirono da tre a due: al mattino «minestra verde preparata con un fascio e mezzo di verdura, lardo e sale e una pagnotta di circa 200 grammi», sostituita un giorno alla settimana con «meno di 100 grammi di riso» o con fagioli e per due volte con 160 grammi di fave secche. Alla sera invece «una minestra bianca di 65 grammi». Cibi più ricchi come maccheroni o formaggi solo una volta alla settimana, mentre «la frutta mai e la carne quasi mai», quest’ultima distribuita solo in occasione di ricorrenze speciali come il Natale, il giorno del santo patrono e gli onomastici del Re e della Regina.
Nel settembre del 1809 Murat decise di introdurre una nuova tassa sulla popolazione, che sarebbe dovuta servire a risollevare anche le sorti del Reale Albergo. Il nuovo dazio sui consumi avrebbe dovuto contribuire a finanziare in parte tutti gli stabilimenti di beneficenza, apportando nello specifico ulteriori 42mila ducati all’ospizio. Tuttavia, se da un lato questo provvedimento concesse una boccata d’ossigeno per le casse dell’Albergo, dall’altro causò l’impoverimento di una larga fetta di Napoletani.
Nel 1814 Gioacchino, per frenare la sempre più numerosa massa di indigenti che lo circondava ogni qualvolta che usciva in pubblico, oltre alla costruzione di nuovi alloggi ordinò per lo stabile un incremento di posti, concedendo 22mila ducati per la reclusione di altri 600 individui. La scarsa qualità e quantità dell’alimentazione fu denunciata dal sovrintendente marchese Cedronio, il quale pose l’accento anche sulla inadeguatezza del vestiario e sulla fatiscenza della struttura. Nell’ottobre del 1809 scrisse infatti che «essi [i reclusi] debbono ovviamente mancare del necessario alla vita e quel che è più probabile trovarsi mal ricoverati e vestiti» e che vi era «un edificio che gronda acqua per tutto; un orario di vita e di travaglio poco ragionevoli; per l’addietro il cattivo e scarso alimento e soprattutto la privazione della carne e del vino; un vestiario perlopiù incompleto».
Per via di queste difficoltà si riscontrarono delle rimostranze da parte di chi, pur avendo a disposizione un tetto sopra la testa, preferiva vivere di espedienti per le strade. In tal senso, alcuni scritti testimoniarono questa refrattarietà, come quello del già citato Cedronio che, nel novembre 1809, esortò il personale ad intraprendere ogni sorta di impegno per scongiurare le fughe che continuamente si verificavano nel reclusorio, pur ammettendo l’inevitabilità del fenomeno «ad onta di tutte le precauzioni». Fenomeno che era destinato a continuare per anni se ancora nel maggio del 1814 l’eletto di Montecalvario scrisse che i poveri non volevano per nessuna ragione recarsi nell’Albergo.
Criticità di ordine politico furono al centro della controversia con Luigi De Rosa, appaltatore dei lavori di bonifica dei Regi Lagni. Per effetto della legge sulla soppressione dei monasteri, l’Albergo divenne proprietario di 560 moggi di terreno di un feudo confinante con la zona interessata dai lavori di bonifica. Questa proprietà forniva la “modica” cifra di 5mila ducati di affitto più una provvista di frumento che, stando alle stime degli amministratori, bastava ad alimentare i reclusi per cinque mesi. Nel 1807 lo scorporamento da questo fondo di circa 180 moggi a favore del De Rosa, necessari per saldare un suo debito verso lo Stato, causò una energica protesta da parte degli amministratori i quali dichiararono che si sarebbe potuto rimborsare l’appaltatore con ben altro, evitando di danneggiare le entrate dell’Albergo. Anche se le proteste rimasero pressoché inascoltate, l’amministrazione dei Regi Lagni concesse 1.462 ducati annui. L’episodio è significativo perché mise in luce l’allineamento della classe dirigente francese verso il potente di turno, come poteva essere il De Rosa. L’appaltatore, legato al ceto economico prevalente, indusse il governo a schierarsi dalla parte del più forte e a trascurare delle difficoltà di primaria, di natura economiche per l’Ospizio ed alimentari per i poveri reclusi, che sarebbero potute scaturire da un simile provvedimento.
Murat si recò personalmente in visita all’Albergo dei Poveri in più di un’occasione. Una di queste è testimoniata dal dipinto, conservato presso la Reggia di Caserta, del pittore francese Benjamin Rolland dal titolo: Murat in visita all’Albergo dei poveri. Realizzato nel 1813, in esso è riconoscibile il Ministro dell’interno Giuseppe Zurlo e il seguito del Re che per l’occasione fu accompagnato dai figli Achille, Letizia e Luciano. Nel dipinto si osservano inoltre due frati sulla destra che «paiono messi apposta in quel modo, come a rappresentare una Chiesa ormai subordinata a uno Stato laico, fosse anche nell’amministrazione della carità» e, al centro, due uomini, portatori del messaggio politico dell’opera.
Diventato il simbolo della reclusione e volgarmente soprannominato «il Serraglio», se con i Napoleonidi attraversò una fase di relativo sviluppo delle attività manifatturiere, è pur vero che la distinzione funzionale auspicata da re Carlo nel decreto di fondazione (vale a dire tra gli abili e gli inabili al lavoro), avrebbe raggiunto piena maturazione soltanto molti decenni dopo, nei primi anni dopo l’Unità d’Italia.
Tirando le somme, va certamente riconosciuto ai Francesi il merito di aver gestito adeguatamente questo grande istituto, tanto maestoso quanto complesso, come quello di avergli conferito un ordinamento amministrativo ed economico oltre ad aver tracciato un solco per lo sviluppo delle arti, in virtù dell’attuazione di un programma educativo teso a sensibilizzare i reclusi a delle forme di lavoro.

La statistica del 1811 e i rilevamenti nel circondario di Lauro

La Statistica del Regno di Napoli fu una delle iniziative di maggior spessore del Decennio francese. Voluta dal governo murattiano nel 1811, contribuì enormemente alla conoscenza delle condizioni del Regno e si rivelò di grande utilità anche negli anni successivi. Nello specifico si articolò in quattro aree: stato fisico, sussistenza della popolazione, caccia, pesca ed economia rurale, manifatture. La dimensione igienico-sanitaria risultò abbastanza grave per tutte le province: l’umidità e la mancanza di ventilazione rendevano insalubri e inadeguate le abitazioni, a cui si sommava la presenza tra le mura domestiche di animali di piccola e grossa taglia e delle gravi lacune igieniche che interessavano il sistema ospedaliero in generale. Nei villaggi e nelle periferie il servizio della condotta non era estesa a tutti i comuni, poiché molti enti tagliavano le spese per i medici costringendoli a rinunciare spesso agli incarichi, lasciando in totale abbandono le classi meno abbienti le quali, molto spesso, si rivolgevano a figure dalle dubbie competenze scientifiche quali «donnicciuole» o «ciarlatani».
Il redattore della Statistica per la provincia di Terra di Lavoro fu il canonico Francesco Perrini, il quale evidenziò che tra le malattie più diffuse vi fosse la rosolia, la tigana, il gozzo, che a suo parere traevano origine dallo stato paludoso di gran parte dei terreni e dalle esalazioni prodotte dalla macerazione della canapa nelle acque dei Regi Lagni e nelle zone a coltivazione canapicola.
Riguardo il personale sanitario, una buona preparazione fu propria dei medici e dei cerusici i quali erano «ben istruiti», mentre stessa cosa non poteva dirsi per i farmacisti tra cui ve ne erano sicuramente di preparati ma anche di «ignoranti», che «spacciano medicine cattive e droghe falsificate con grave danno de’ poveri infermi», tanto da spingere il curatore a rivolgere una sollecitazione al protomedicato a compiere visite più severe e scrupolose per questo aspetto che «tanto interessa la salute pubblica».
Escluse dalla condotta, la categoria delle levatrici presentava tratti oltremodo ambigui. Su di esse l’estensore si fece interprete del sentimento di ostilità dell’intera comunità scientifica, e a tal proposito scrisse:
Delle ostetrici non abbiamo di che lodarci. In fuori del circondario di Airola, dove un abile professore ha aperto una scuola di ostetricia, ed ha diffusa una sufficiente istituzione nella classe delle levatrici, in tutti gli altri siti le persone di questo mestiere sono ordinariamente ignoranti, e non hanno alcun principio dell’arte che professano e poiché ordinariamente all’ignoranza accoppiano la superbia in vece di chiamare in ajuto un abile professore in caso di parto difficile, agiscono sole, e conducono a morte tante infelici partorienti.
I dati del circondario di Lauro confermarono verso le levatrici la linea di pensiero espressa dal Perrini, insieme ad una serie di informazioni relativi ai saperi medicinali e culturali, che sostanzialmente erano propri di tutta quell’area appenninica della Campania, appartenente al circondario del Vallo di Lauro.
Le condizioni abitative del circondario furono valutate pessime, al centro di un’aria «insalubre e miasmatica» che la ventilazione dei colli e dei monti circostanti non riusciva a liberare. L’insalubrità del luogo secondo le teorie degli estensori era la causa di tutte le malattie e pose il problema del risanamento e della bonifica sotto gli occhi del governo francese.
La categoria delle levatrici, invece, si situava a metà strada tra l’ufficiale ed il popolare, insieme a tutta una schiera di professionalità non mediche (i cosiddetti «ciarlatani») «de’ quali s’ignora sovente il costume, la condizione e l’abilità», come scrisse il redattore della statistica pugliese. Questa denuncia diede vita ad un dibattito lungo che si protrasse fino al 1888, quando fu emanata dal Regno d’Italia la legge secondo la quale «nessuno può esercitare la professione di medico chirurgo, veterinario, farmacista, dentista, flebotomo, o levatrice se non […] abbia conseguito o la laurea o il diploma di abilitazione in un’università, istituto, o scuola a ciò autorizzata», con la quale si bandirono tutte quelle pratiche della cosiddetta medicina popolare. L’atteggiamento di denuncia nei confronti delle levatrici emerse in tutta la sua asprezza. Se queste donne furono avversate dalla comunità medica, è pur vero che godettero altresì di un certo prestigio presso le masse rurali, con il beneplacito della Chiesa. Proprio la Chiesa si mostrò favorevole al loro servizio in particolar modo per quanto riguardava il ruolo specifico che esse ricoprivano nel rituale del battesimo, controllando periodicamente attraverso i parroci la buona condotta, le qualità morali e la corretta conoscenza della formula del battesimo di queste donne, molte delle quali analfabete. La partecipazione attiva al battesimo costituiva un legame che si formava tra la famiglia del bambino e la levatrice chiamata a prestare soccorso, e comprendeva una serie di usanze a metà strada tra la buona educazione ed il superstizioso. Molti di questi hanno fatto pensare a come il ruolo della «mammana» spesso e volentieri potesse sfociare nel ruolo della strega e di come per questo la sua figura fosse temuta, tanto da costringere le famiglie a riservarle delle attenzioni anche una volta terminata la sua prestazione.

Le istituzioni assistenziali a Caserta

Quando il Consiglio generale degli ospizi di Terra di Lavoro chiese ai sindaci di inviare nel più breve tempo possibile notizie sugli stabilimenti di beneficenza nei comuni di loro competenza, tra gli istituti più importanti della provincia figurava senza dubbio l’ospedale A.G.P. di Caserta Vecchia. Esso godeva di un particolare regime di beneficenza poiché rientrava tra le proprietà del sovrano dal momento in cui Carlo di Borbone acquistò il feudo di Caserta. All’Annunziata si destinava una rendita di 3.500 ducati annui e la gestione delle spese era in comune con l’Ospedale civile, il quale beneficiava di gran parte della cifra per via dei maggiori costi di gestione ed entrambi gli enti dovevano rendere conto delle loro spese all’amministrazione del sito reale della città. Riguardo alle spese, che offrono un’idea anche sull’importanza delle figure sanitarie all’interno della struttura, la Casa Santa spendeva 12 ducati per il «controloro», 8,60 per il cappellano, sei per il «pratico chirurgo», cinque per il cuoco, 4,60 per l’infermiere e appena quattro per il chirurgo. In occasione dell’arrivo nel Regno dei Francesi, l’Annunziata ospitò per una notte e una mattina le truppe inglesi di passaggio in città il 13 dicembre 1805. La Forti ha elencato dettagliatamente a tal proposito le spese sostenute per il vitto e per l’alloggio dei soldati ed ha parlato dell’atteggiamento apertamente tollerante del personale nei loro confronti, dicendo che:
Si spesero per la legna e le fascine una quarantina di carlini, mentre il rancio per la truppa comprese pane (4 carlini), uova (5), finocchi (2) vino rosso (6), l’immancabile mozzarella (6), ed anche caffè (2). Due «vastasi» (facchini) furono incaricati di «mettere in piedi gli letti» e di «calare robba» e percepirono 46 carlini, mentre un ducato e mezzo occorsero per l’illuminazione (carboni, una «torcia di pece per uso del controloro per andare girando», un ventaglio per accendere il fuoco). In conto all’Annunziata finirono anche spese alquanto singolari: un «regalo al pratico che stesse in veglia tutta la notte per badare che non ci fusse avvenuto un incendio per gran paglia che v’era e perché facevano gli soldati uso della pipa» e fu perfino necessario assecondare i capricci di un ufficiale inglese, che pretese che si dovesse «dare a mangiare e dormire ad una donna che non stava lontano dal quartiere».
Per il furto di due coltelli l’Annunziata dovette sborsare inoltre altri 24 carlini. Alla Casa Santa era collegato da un’unica gestione l’Ospedale civile, in cui vi erano un reparto militare ed un reparto civile dove i degenti versavano una retta quotidiana per il ricovero.
Quando la Commissione si insediò nel 1809, intraprese anche un’accurata operazione di verifica di tutti i crediti che col passare del tempo l’istituzione non aveva riscosso.

Riferimenti bibliografici

  • Silvano Franco, La politica sanitaria durante il decennio francese nel Regno di Napoli, Marina di Minturno, Caramanica 2000.
  • Aurelio Lepre (a cura di), Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), Napoli, Liguori 1985.
  • Maurizio Montone, Pauperismo e Stato: il real albergo dei poveri: vita dell'opera (Napoli, 1751-1951), Napoli, La scuola di Pitagora 2010.
  • Lucia Valenzi, Poveri, ospizi e potere a Napoli, (XVIII- XIX sec.), Milano, Franco Angeli 1995.

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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]

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